Per Le Tre domande del Libraio su Satisfiction questa settimana incontriamo Mario Santamaria, romano, laureato in Antropologia, si occupa di comunicazione in ambito universitario. Scrive per mestiere e per piacere e “Custode di mio fratello”, da pochi giorni uscito per Affiori, è il suo secondo romanzo; l’esordio nella narrativa é avvenuto nel 2019 con “Io sono il fiume”, edito da L’ Erudita. Nel 2014 ha dato vita a “Narrabit”, un blog di racconti e recensioni. Nel 2017 e nel 2021 ha vinto il Premio Nazionale Roberto Iannilli.
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Mario, questo tuo secondo romanzo arriva dopo circa sei anni dal precedente; ci vuoi raccontare il tuo percorso nella scrittura e da dove nasce questa necessità e cosa ti ha ispirato a scriverlo, se c’è stato un evento o un momento particolare che ha acceso la scintilla per questa storia?
È vero, sono passati sei anni. Durante i primi tre, nella mia follia dispersiva, ho lavorato su due storie in parallelo. Poi questa ha preso il sopravvento. Difficile capire il perché di questo scavalcamento ma ci provo. Credo vada imputato a tre questioni: l’assassino di McCarthy, l’“e se invece” delle antibiografie, e la radicalizzazione delle posizioni scatenata dalla paura del virus.
In quel periodo stavo rileggendo “Non è un paese per vecchi” e spesso a me succede così. Nella composizione di una storia la svolta arriva dai luoghi più inaspettati. Ho deciso – o forse l’ha deciso la moneta di Anton Chigurh, chissà – che anche Caio, uno dei due fratelli di “Custode” avrebbe avuto una moneta. Ma mentre l’assassino di McCarthy lascia decidere il caso, Caio affida alle sue 20 lire del Ventennio un compito più arduo, ovvero quello di riallineare il caos della vita con il destino già segnato. La decisione di fatto è stata presa. Esiste già nel corso immodificabile del fato. O almeno questo è quello che Caio si racconta.
C’è poi l’“e se invece”. Vengo da una famiglia attraversata da cicatrici ideologiche che, come spesso accade nascondono anche ferite più profonde, e dove non dire è sempre stato uno dei tentativi disperati messi in campo per essere felici. E, tutto sommato, ce l’abbiamo fatta. Ho avuto un’infanzia normale e un’adolescenza turbolenta il giusto, condita di tutti i conflitti immaginabili fra un padre che aveva militato nelle organizzazioni neofasciste e un figlio che faceva i notiziari nelle radio libere. Fin qui la biografia che, come tale, è interessante solo per chi l’ha vissuta. Per scrivere una storia che sia interessante anche per chi la legge, invece, la domanda che uno scrittore dovrebbe farsi è: “e se invece di così, fosse andata in un altro modo?”. Il suo compito, secondo me, è quello di trovare la giusta distanza per navigare questi altri “modi” finché non trova quello che risponde meglio al senso profondo che vuole dare alla sua storia. Che riesce a evocarlo attraverso le vicende dei suoi personaggi. Solo a quel punto anche il lettore riuscirà a “entrare in risonanza” con il testo, nella più magica fra le esperienze che la lettura ci concede. Spero di esserci riuscito.
Durante i lunghi mesi della pandemia, la nostra risposta impaurita al silenzio brutale delle strade è stata spesso quella di un vociare scomposto. Con una forza che echeggiava un po’ i miei ricordi di adolescente, gli schieramenti opposti – rigoristi contro libertari, complottisti contro scientisti, vaccinisti contro no-vax – si sono lanciati in battaglie a volte feroci. Spesso gridate da un balcone all’altro. Quelle che però hanno più influenzato alcune mie scelte autoriali sono state quelle che scuotevano le mura di una stessa casa. Quei conflitti esplosi fra consanguinei, gonfiati dalla paura e alimentati da tutto quello che, probabilmente, giaceva in sottofondo. Negato, nascosto, riraccontato per trovare sprazzi di felicità.
I protagonisti di questa storia sono due fratelli dai caratteri complessi e pieni di sfumature. A partire dal titolo vogliamo spiegare, ai tanti lettori forti di Satisfiction, come hai costruito i due personaggi e l’intreccio della trama?
Il titolo, che accenna in maniera esplicita alla Genesi, l’ho pensato apposta perché richiamasse la contrapposizione radicale fra bene e male, caratteristica di tutte le religioni del libro. Non solo. Forse di tutta la narrativa pensata per orientare i comportamenti del “fruitore” e sostenere una tesi. Dalla mitologia dei popoli senza scrittura ad alcune serie TV contemporanee, buona parte di quello che l’homo sapiens ha raccontato negli ultimi millenni ha queste sembianze. Quando però il dualismo viene calato nella vita vera – anche quella verosimile delle storie autentiche – di una famiglia, di due fratelli, le cose si complicano. Caino diventa meno Caino e Abele meno Abele. Si scoprono i lati oscuri del bene e quelli luminosi del male. E si finisce per inciampare nel dubbio che agita fin dall’infanzia Lucio e Caio, riportato sulla quarta di copertina. “Ma nessuno dei due aveva mai capito chi fosse Caino e chi Abele”.
Inoltre, del libro della Genesi, in pochi ricordano l’epilogo della vicenda di Caino e Abele. Il versetto 4:15 recita “Il Signore impose a Caino un segno, perché non lo colpisse chiunque l’avesse incontrato.” Nemmeno nella Bibbia, un testo dottrinale e per ovvie ragioni polarizzante, Dio lascia da solo Caino. Lo protegge perfino con un segno. Perché? Il male ha quindi un ruolo accettabile e necessario per l’evolversi della vita stessa, di una comunità o di una persona? E quel segno è lo stesso che il padre di Lucio e Caio gli incide nella carne alla loro prima malefatta?
Quello che succede a Lucio e Caio nel 2020 – nelle stesse settimane in cui l’Italia iniziava a trovare nuovi bipolarismi in base ai quali schierarsi – finisce per obbligarli a scelte continue che sembrano rinnovare la domanda sotterranea che li assilla da sempre. Cosa succede quando la ferita più profonda di una famiglia corre lungo la frontiera tra ideologie opposte? Prevale il sangue o prevale il credo?
La tua scrittura sembra avere una vena più intima e personale, rispetto al tuo libro d’esordio. Qual è stata la sfida più grande nel portare a termine questo libro e, dal punto di vista formale, come hai bilanciato il tuo stile narrativo con la necessità di coinvolgere emotivamente il lettore?
È vero, ci sono autori che hanno una voce chiara, limpida, riconoscibile, che sembra sempre identica a sé stessa. Ma penso sia vero solo a una visione – o forse a un ascolto – superficiale. A guardare bene – o ad ascoltare bene – ogni libro, anche nell’ambito di una voce pienamente riconoscibile, ha poi bisogno di un canto tutto suo. Gli esempi fra i grandi scrittori sono innumerevoli. Fra “Il guardiano del frutteto” e “Stella Maris” di McCarthy, per rimanere in tema, c’è più o meno la stessa distanza che c’è fra “Un cuore debole” e “I fratelli Karamazov” di Dostoevskij. Sono convinto che anche gli scrittori piccoli come me abbiano il dovere di cercare tanto la voce che presiede su tutto, quanto il registro, il ritmo e il colore di ogni canto.
La sfida più grande, fra le varie stesure di “Custode”, è stata proprio questa. All’inizio le scelte formali che avevo fatto erano molto uniformi e piuttosto medie, canoniche diciamo. Ciò che mi ha fatto rendere conto che non funzionavano è stato proprio il riscontro di alcuni lettori beta. Nonostante gli fossero chiari conflitti e vicende, quello che non sembrava emergere e toccarli davvero erano gli stati d’animo e le motivazioni profonde dei tre personaggi chiavi di “Custode”: Lucio, Caio e la sorella “inaspettata” che arriva a sconvolgere le loro normalità.
È solo a quel punto che ho capito che il canto giusto per questa storia era in realtà un duetto. Lucio e Caio reclamavano ognuno il proprio registro, la propria tonalità, per riuscire veramente a far emergere motivazioni e drammi interiori. Ovvero tutto quello che spinge loro sulla pagina, e spesso noi nella vita reale, a fare ciò che poi facciamo.
Buona Lettura di Custode di mio fratello di Mario Santamaria.
Antonello Saiz