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Come uccidere un mito e sentirsi meglio”, ovvero come spiegare ‘Il giovane Holden’ a colpi di revolver

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Questa è la storia di due uomini molto diversi tra loro, che però – in un preciso giorno di dicembre – finiranno per incrociare i loro destini in modo… definitivo. Uno si chiama John Lennon. Sì, proprio quel John Lennon. Cantautore, profeta laico della generazione X, pacifista a tempo pieno, testimonial dello Stato Libero di Utopia e, dettaglio non trascurabile, ex Beatles – ovvero membro fondatore della band più famosa della storia della musica pop.

L’altro si chiama Mark David Chapman. Ha 25 anni, una faccia da bravo ragazzo che sembra appena uscito da una pubblicità anni ’70. Ma dietro l’aspetto da boy scout fuori tempo massimo, si nasconde un buco nero. Un tipo che non ha lasciato segni particolari nella vita… tranne, purtroppo, uno molto profondo.

8 dicembre 1980. Sono le 22:50.

John Lennon e Yoko Ono stanno rientrando al Dakota Building dopo una sessione di registrazione. Giornata lunga, intensa, una di quelle che ti fanno venire voglia di silenzio e divano. In mattinata, John aveva già dato: shooting fotografico per Rolling Stone con la leggendaria Annie Leibovitz. La rivista era stata chiara: niente Yoko nella foto, grazie.

John, che quando gli partiva il principio non c’era verso, sbotta: “Ah sì? Senza Yoko, niente Lennon.” Risultato? Scatto iconico. Lui nudo come mamma l’ha fatto, rannicchiato come un bambino, incollato a una Yoko completamente vestita e impassibile.

Una copertina che ha fatto la storia. E che, ironia della sorte, sarà anche l’ultima.

Quella sera, davanti al portone del Dakota, c’è Mark David Chapman. Sta lì da ore, con in mano una copia de Il giovane Holden e in testa un casino cosmico. Lo vede arrivare, lo segue con lo sguardo. Lennon avanza tranquillo, con la sua giacca di pelle, probabilmente pensando a cosa ordinare da mangiare.

Poi Chapman lo chiama, come se stesse salutando un vecchio amico: “Hey, Mr. Lennon…”

John si gira, fa qualche passo. Chapman tira fuori un revolver Charter Arms calibro .38 Special e spara. Cinque colpi. Quattro lo centrano. Uno squarcia l’aorta. Lennon fa ancora qualche passo, riesce a dire: “Mi hanno sparato”, poi crolla tra le urla strazianti di Yoko.

Lo caricano su una volante, niente ambulanze da film: gli agenti lo portano al Roosevelt Hospital. Alle 23:15 viene dichiarato morto. Fine.

E Chapman? Tranquillo, glaciale, si toglie la giacca, si siede a gambe incrociate come se stesse aspettando il tè delle cinque, tira fuori il suo libro preferito, “The catcher in the rye ” di Salinger -In italiano tradotto come “Il giovane Holden” e si mette a leggere.

Il custode, che ha appena assistito a una tragedia, gli urla: “Ma lo sai cosa hai fatto?”. E lui, con lo stesso entusiasmo di uno che comunica l’orario del prossimo autobus: “Sì. Ho ucciso John Lennon”. Il giovane Holden non avrebbe approvato.

Niente resistenza, niente drammi. Docile, mite, come un impiegato dell’anagrafe in pausa pranzo. Alla polizia dirà solo: “Una voce dentro di me continuava a dire: fallo, fallo. Ancora e ancora”.

E così se ne va il simbolo di un’intera generazione.

Il portavoce della pace, della rivoluzione con la chitarra e gli occhialini tondi.

Ucciso da un fan con problemi di identità e una passione per Holden Caulfield.

Fine dei sogni, fine della musica, fine dell’epoca.

Ma la domanda rimane: perché?

E no, “perché me l’ha detto una vocina” non è una risposta soddisfacente.

Ma fermiamoci qui. Freeze-frame. Torniamo un attimo indietro, rewind.

Liverpool, 1940. Mentre in Europa volano bombe, nel ventre di Julia Stanley nasce John Winston Lennon. Giulia è una tipa brillante, con un debole per i night club e i ragazzi carini, specialmente quelli meno raccomandabili. Uno in particolare, Alfred Lennon riesce a conquistarla nonostante (o forse grazie a) il fatto che faccia il cameriere sulle navi da crociera. È talmente poco presente che a un certo punto sparisce… come il Titanic.

Julia è un’instancabile, festaiola e grande amante della musica. La sorella maggiore, Mimi – la zia con l’aplomb della regina madre e il moralismo di una nonna metodista – non ci vede più dalla preoccupazione e si prende carico del piccolo Lennon in Menlove Avenue. Lei e suo marito George non hanno figli, e John diventa il figlio surrogato perfetto. Almeno fino a quando non inizia a rispondere a tono e ad ascoltare Elvis a tutto volume. La madre Julia è forse la persona che più di ogni altra ha spinto il futuro chitarrista a diventare un ribelle e ad insegnargli i primi accordi su un banjo; ecco perché, inizialmente, lo stile di John é più quello di un banjoista che non di un chitarrista. Famosa è la raccomandazione che la zia Mimi fa a John, vedendolo trascorrere gran parte del suo tempo a strimpellare la chitarra “con quella non ti guadagnerai mai da vivere!”. 

Cresce in un, sobborgo tranquillo, ma John ha la tempesta dentro. È inquieto, ribelle, e con una passione sfrenata per il rock’n’roll. Imita le basette dei suoi idoli, strimpella strumenti improbabili, come una chitarra con le corde di un ukulele. Da piccolo già suona l’armonica a bocca. Come dire “ciao mondo, preparati”.

 E proprio quando madre e figlio iniziano a imparano a volersi bene davvero … la tragedia. Jiulia viene investita da un’auto. Muore. John ha diciott’anni e un buco nell’anima che userà, da quel giorno in poi, per scrivere canzoni e scavare nella sua stessa psiche.

Poi arriva il 1960 e con lui il miracolo laico: Paul McCartney. E poco dopo George Harrison. Più Stuart Sutcliffe, il “quinto Beatle” per chi ama le edizioni limitate. La zia Mimi s’infuria: “Quel McCartney è della working class, oh dear! E l’altro con quei capelli? Un delinquente!” Ma John se ne infischia e continua a scrivere, suonare, urlare.

Nessuno, davvero nessuno, poteva immaginare che quei quattro ragazzini britannici con gli strumenti scordati e le camicie larghe avrebbero ribaltato il mondo.

Il resto – come si dice – è storia.

1966. London calling.

C’è un’anteprima artistica in città, una di quelle cose da radical chic in giacca di velluto e opinioni pretenziose. John Lennon viene invitato, forse per curiosità, forse per noia, sicuramente senza sapere che da lì a poco la sua vita prenderà una curva a gomito. La mostra è di un’artista giapponese semisconosciuta, una certa Yoko Ono – o come la battezzerà ben presto la stampa britannica: “quella là”.

John sale una scala, guarda una mela su un piedistallo (che costa 200 sterline, roba che al mercato sotto casa gliene davano tre casse), legge un microscopico “Yes” con una lente d’ingrandimento e… bum. Fulminato. Amore a prima vista. Avanguardia pura, silenzio zen e concetti che Sylvia, la sua moglie di allora, non avrebbe capito nemmeno con le note a piè di pagina.

La famiglia? Già incrinata. Il figlio Julian? Troppo piccolo per capire, abbastanza grande per diventare, inconsapevolmente, il cuore spezzato dietro “Hey Jude”.

Il duo diventa culto.

John e Yoko diventano una cosa sola, un’entità cosmica, una performance continua. Il punto più alto (o più basso, a seconda dei gusti) arriva nel 1969 con il celeberrimo Bed-in for Peace all’Hilton di Amsterdam. Una settimana a letto, vestiti di bianco, circondati da giornalisti e telecamere. Protesta pacifista in pigiama, l’equivalente sessantottino di un post virale.

Il gruppo? I Beatles? Distratto, incrinato, irritato. Con l’arrivo di Yoko in studio, l’atmosfera diventa quella di una cena di Natale con parenti che si odiano. Ma Lennon, nel caos, trova una nuova voce. I brani si fanno più sperimentali, più politicizzati, più suoi.

1970. Game over.

 Nel suo primo vero lp “Plastic Ono Band” ci dice “io non credo nei Beatles, io credo solo in me, in Yoko e in me, io ero il tricheco ma adesso sono John, e così cari amici dovete solo andare avanti, il sogno è finito”.  

I don’t believe in Beatles. The dream is over”, il sogno finisce davvero. Il mondo piange. I fan strappano i dischi. E tutti – ma proprio tutti – danno la colpa a Yoko. Come se il declino fosse cominciato il giorno stesso in cui lei ha messo piede ad Abbey Road.

La fuga negli States.

John e Yoko si trasferiscono negli USA. Ma c’è un dettaglio: a Nixon, Lennon non piace. Troppo comunista, troppo visibile, troppo John Lennon. Il presidente, tra una paranoia e l’altra, decide che l’ex Beatle va espulso. Spunta un vecchio arresto per possesso di cannabis. Et voilà: ecco il pretesto legale per sbatterlo fuori.

John non si scompone. Convoca una conferenza stampa in un’associazione di baristi (!) e si proclama ambasciatore di Utopia – nazione immaginaria e un solo articolo della costituzione: fate l’amore, non la guerra.

Watergate. Karma instantaneo.

E poi: la défaillance.

Nel 1972, durante una festa, John combina il disastro: tradisce Yoko senza nemmeno il buon gusto di essere discreto. Lei, che l’ha capito benissimo, lo spedisce a Los Angeles “a riflettere”. Tradotto: via dai piedi. John obbedisce, ma non da solo. Si porta dietro May Pang, l’assistente personale di Joko ventenne. Inizia il suo “Lost Weekend” – che durerà, però, quindici mesi. Sesso, alcol, disastri vari, interviste imbarazzanti. E May che fa da segretaria, infermiera, madre e baby-sitter.

Musicalmente? Un deserto. Personalmente? Un Truman Show su LSD. Eppure, c’è chi dice che, lontano da Yoko, Lennon avesse ritrovato un po’ di se stesso. Ricomincia a parlare con gli ex Beatles. Ricomincia a scrivere.

La reunion.

Nel novembre del 1974, al Madison Square Garden, Elton John lo invita a salire sul palco. John accetta. Ma nel backstage succede l’inatteso: Yoko c’è. Si guardano. Si capiscono. Si rimettono insieme.

Padre e uomo.

Nel 1975 nasce Sean, il figlio tanto atteso. Lennon, inaspettatamente, decide di mollare tutto. Basta musica. Basta interviste. Vuole essere padre, marito, uomo normale in un mondo che normale non lo sarà mai.

E qui, proprio al Dakota Building, dove tutto sembrava essersi finalmente sistemato, Lennon incrocia il suo destino. Si chiama Mark David Chapman.  Il secondo, tragico protagonista di questa storia. 

Ma chi è Mark David Chapman, l’uomo che uccide una leggenda vivente della musica, il vate della pace?

Texas, Fort Worth, maggio 1955. Un neonato grassottello piange nel suo lettino: si chiama Mark. Il padre, David Chapman, è un sergente dell’aeronautica militare. La madre, Diane, un’infermiera. Famiglia all’apparenza rispettabile, ordinaria, americana fino al midollo. Ma il piccolo Mark è tutt’altro che ordinario. Timido, introverso, e maldestro: il bersaglio perfetto per i bulli scolastici, che con la fantasia crudele tipica dei bambini, lo ribattezzano “Pussy”, “Fighetta”, “Schiappa”.

La vita scolastica è un inferno. Ogni volta che cambia scuola – e le cambia spesso, per via del lavoro itinerante del padre – il copione si ripete: solitudine, umiliazioni, nessuno che lo prenda per mano. I genitori non notano nulla. Diane, ingenuamente, pensa che il figlio sia solo un bravo bambino, silenzioso e ubbidiente. Quindi, felice. Niente di più sbagliato.

Mark si rifugia nella fantasia.

Crea un mondo tutto suo, popolato da minuscoli omini invisibili che vivono tra le pareti della sua cameretta. Lui è il loro re, il loro Dio. Li organizza, li consola, li diverte con concerti (ovviamente a tema Beatles, perché Mark li adora). Ma ogni tanto, se questi esserini immaginari si comportano male, lui li punisce. Con crudeltà. Li minaccia, li annienta, li fa saltare per aria. Un Dio capriccioso e vendicativo, degno della miglior mitologia.

La musica dei Beatles è la sua ancora. Gliela fa conoscere suo padre, mettendogli in mano una chitarra. Mark ne resta folgorato. Il culto diventa ossessione. Lennon è un idolo. Un faro. Un amico immaginario più saldo degli altri.

Poi arriva l’adolescenza, e la situazione peggiora.

Si iscrive alla Columbia University in Georgia, ma anche lì è emarginato. Non fa sport, non ha fascino, non ha carisma. In America, se non sei una star del football o del basket, sei un nessuno. Con le ragazze, zero assoluto. Perde il controllo. Salta le lezioni, si droga. A 14 anni scappa di casa e viene ritrovato due settimane dopo, in stato confusionale, mentre vaga per le strade di Miami sotto effetto di allucinogeni. Il padre, andato a riprenderlo, scoppia in lacrime. Mark dirà che fu la prima e unica volta in cui vide suo padre piangere. Oppure se lo immaginò. Chi può dirlo?

Nel 1971 John Lennon pubblica “Imagine”.

Mentre Lennon sogna un mondo senza guerre, Mark assiste a un convegno religioso in uno stadio gremito. È una rivelazione: si converte, diventa un cristiano fervente. Si taglia i capelli, si mette una croce al collo e si fidanza con Jessica, anche lei devota. Partecipano ai campus della YMCA, l’associazione cristiana per giovani. Qui, incredibilmente, Mark sboccia: tutti lo adorano, lo chiamano Capitan Nemo, è il ragazzo ideale, l’animatore perfetto, l’amico dei bambini. Persino il direttore del campus dice di lui: “Sembrava nato per aiutare gli altri”.

Sembra un nuovo inizio.

Nel 1975 lo spediscono persino in Libano, per un programma umanitario. Ma dura poco: scoppia la guerra civile e Mark viene rimpatriato. Lo mandano in Arkansas, in un campo profughi vietnamita. Anche lì si fa voler bene. Un angelo. O quasi. Perché ogni tanto, senza motivo, perde la testa. Urla, si chiude in sé stesso. Qualcosa scricchiola.

Anche la relazione con Jessica si incrina. Lei frequenta l’università presbiteriana, dove le regole sono ferree: niente contatti tra i sessi, niente feste, niente alcool. Un incubo per chi ha fame di vita. Mark si ribella. La tradisce. Lei lo lascia.

E così tutto crolla.

Litiga con tutti: con i professori, con i dirigenti della YMCA. A 22 anni ha già perso tutto. Non è più Capitan Nemo, non è più l’angelo della YMCA. È di nuovo il ragazzino isolato che parlava con gli omettini invisibili.

Poi, qualcuno gli mette in mano un libro: Il giovane Holden, di J.D. Salinger.

Una rivelazione. Un’epifania.

Mark si identifica così tanto con Holden Caulfield da perdere ogni senso della realtà. Quel ragazzo disilluso, arrabbiato col mondo, che odia l’ipocrisia e sogna di fermare il tempo, diventa la sua ossessione. Mark diventa Holden. Si convince che tutto ciò che è falso e corrotto vada eliminato.Mark, come una mascotte della disperazione, aveva deciso che la sua vita non aveva più senso. Non uno di quei pensieri da “esistenzialista giovane e tormentato”, no. Lui voleva finire con stile. 1977: macchina, spiaggia semideserta alle Hawaii, tubo collegato allo scarico e una dose letale di fumo. Era il piano perfetto, se non fosse che la vita, quella strana entità che ama farti sentire un po’ troppo importante, gli aveva riservato un colpo di scena. Un pescatore, un perfetto sconosciuto, arriva e salva il suo culo. L’auto era ancora troppo nuova, o forse il fumo non era abbastanza denso. In ogni caso, Mark finisce in ospedale. Ma, miracolosamente, non come cadavere. No, come un uomo rinato. Magia dell’ospedale, giusto? Rientra con la faccia da uomo che ha appena scoperto che la vita non è poi così male – e ci regala delle performance musicali degne di una band da ospedale, con chitarra in mano e canzoni dei Beatles per tutti. Un volontario modello. Però, come tutto ciò che è bello, c’è sempre una macchia. Una scintilla di follia. Litiga con un’infermiera, e tutto va a rotoli. Ma che ti aspettavi? È Mark, non un tipo da favola.

L’anno dopo, il ragazzo è un altro. Recuperato e pronto a conquistare il mondo. Il Sud Est asiatico lo accoglie a braccia aperte, ma soprattutto, Gloria Hiroko, la sua assistente di viaggio giapponese, come Joko Ono a cui vagamente assomigliava, che lo accompagna, probabilmente per non lasciarlo da solo a fare l’idiota. Nel 1979, romantico come solo un pazzo può esserlo, le chiede di sposarlo sulla sabbia, con una scritta un po’ da film di serie B: “Mi vuoi sposare?”. Un cliché di fine anni ’70, ma lei accetta. Sposati, si trasferiscono a Honolulu. Mark trova lavoro come guardia giurata. Ecco, sembrava andare tutto per il meglio. Ma dentro di lui, come un virus, si risveglia quella cosa che tutti sperano di non avere: l’inquietudine. La depressione. L’ansia. E, ovviamente, il giovane Holden che fa capolino dal passato. Perché, come no? La sua ossessione per il personaggio di Salinger non solo non svanisce, ma peggiora. Compra copie e copie. Ne riempie una libreria. E il culmine arriva quando decide che Mark non basta più. Deve essere Holden Caulfield. Almeno, così si sente più autentico. Ma la sua ricerca di autenticità non si ferma lì. No, ora ha anche una nuova ossessione: i soldi. Perché, quando pensi che le cose possano migliorare, ecco che arriva la realtà con il suo carico di miseria e cinismo.Mark, ormai ossessionato dal risparmio, non si limitava più a controllare ogni centesimo, ma tormentava Gloria con le sue manie compulsive. Ogni spesa, ogni acquisto, diventava una battaglia da combattere, e ogni litigio con sua moglie una guerra inevitabile. I due si trovavano a discutere più spesso di quanto avrebbero voluto ammettere, in una danza quotidiana di accuse e rancori. Ma per Mark, il risparmio era diventato una religione, un feticcio che non poteva ignorare. L’unica cosa che sembrava veramente importante era tenere sotto controllo ogni centesimo che usciva di casa.

Un giorno, durante una delle sue solite incursioni in libreria – quel posto che ormai era la sua tana – si imbatte in un libro che lo colpisce come una pugnalata. “One Day at a Time”, una biografia su John Lennon. Il titolo (“Giorno per giorno”) gli saltò agli occhi come una sfida. Lennon, quel tizio che aveva osato sfidare la sua religione personale con quella frase blasfema: “I Beatles sono più famosi di Gesù”. Per anni Mark aveva cercato di mettere da parte il ricordo di quell’affronto, ma ora, a distanza di tempo, qualcosa in lui si risvegliava. In quelle pagine si celebrava la vita sfarzosa di Lennon, il suo stile da nababbo. Quello stesso Lennon che, con la bocca piena di prediche sulla pace e sull’uguaglianza, viveva in un appartamento lussuoso a New York. Lo stesso uomo che parlava di abolire la proprietà privata, ma che aveva scelto di vivere nel lusso più sfrenato. Non solo predicava la pace, ma aveva anche il tempo di godersi cinque anni senza fare nulla, senza lavorare, solo per occuparsi del suo figlioletto. Mark, che faceva fatica a mettere un pasto caldo sulla tavola, non riusciva a sopportarlo. Come poteva quel tizio non solo parlare di utopie, ma viverle con tanto disprezzo?

La rabbia gli esplose dentro. Cominciò a scandagliare ogni lavoro da solista di Lennon, immergendosi nelle sue canzoni, come un uomo che sta cercando di trovare la verità nelle parole di un traditore. Quando ascoltò God, la canzone che diceva “Dio è solo un concetto con cui misuriamo il nostro dolore”, Mark sentì la rabbia crescere fino a diventare un fuoco che gli bruciava la mente. L’ipocrisia di Lennon, che aveva rinnegato i Beatles – il gruppo che Mark amava con tutto sé stesso – lo turbò profondamente. Quel tradimento lo segnò. Non solo per la blasfemia, ma per la rabbia che gli montava dentro. Perché quel figlio di puttana era ricco, famoso e viveva come un re, mentre lui, Mark, non aveva nulla. Non era mai riuscito a ottenere niente nella vita. E ora Lennon, con il suo disprezzo per il passato e la sua vita senza problemi, gli stava mostrando quanto fosse ingiusta la realtà.

Era questo che lo faceva soffrire più di tutto. Non la miscredenza di Lennon, ma l’invidia pura che provava per la sua vita. Lennon aveva tutto: soldi, fama, un mondo che lo amava. Mark, invece, non aveva mai raggiunto nulla, e quel pensiero lo consumava. Si rese conto che non poteva avere i soldi di Lennon, ma c’era una cosa che poteva prendere: la sua fama. E così nacque il suo piano folle. Avrebbe ucciso John Lennon. In quel momento, la sua mente si concentrò su una sola idea: sarebbe diventato l’uomo più famoso del mondo. Il suo nome sarebbe stato ricordato per sempre. Un’idea assurda, ma che, nella sua testa, sembrava l’unica via d’uscita dalla miseria della sua vita.

Ma c’erano delle voci, piccole e tremanti, gli omettini della sua infanzia che cercavano di dissuaderlo. Voci che lo imploravano di fermarsi: “Non lo faccia, signor Presidente! Pensi a sua moglie! A sua madre! Pensi a lei.Si pentirà!”. Ma a queste voci, ce n’era una che dominava tutte le altre. Una voce potente, oscura, che lo sussurrava in modo seducente, come un richiamo irresistibile. La voce del demonio, che lo spingeva a fare ciò che doveva fare, senza esitazioni. “Fallo, Mark, fallo. Uccidi John Lennon! Uccidilo. Fallo. Fallo!” La voce lo martellava nella testa, un sussurro continuo che non gli dava tregua. Mark, in quel momento, si trovava nudo davanti allo specchio, perso nella sua follia. Le canzoni di Lennon risuonavano a tutto volume, invadendo la stanza come un urlo di rabbia. Ogni nota, ogni parola sembrava alimentare il delirio che cresceva dentro di lui. Con la mente in ebollizione, leggeva ad alta voce brani de ” Il Giovane Holden”, come se le parole potessero fare da carburante alla sua ossessione, come se Holden stesso, con la sua disperazione, gli avesse dato il permesso di impazzire.

E più leggeva, più quelle voci diventavano ingombranti, schiacciandolo come un peso insostenibile. La sua mente era una polveriera, pronta a esplodere in un caos assoluto. Le voci lo consumavano, risuonando più forte di qualsiasi altra cosa, fino a che non riuscì più a distinguere la realtà dalla follia che lo inghiottiva.

Così, un bel giorno, Mark si alzò e decise che doveva farlo. Non c’era più tempo. Non c’erano più scuse. A New York, ci andò davvero. Non era più un sogno, un pensiero tormentato, un’idea che gli solleticava la mente nei momenti più bui. No, ora era un passo concreto. Mark Chapman si stava dirigendo verso il suo destino, pronto a compiere ciò che le voci gli avevano detto di fare.Ottobre 1980. Mark ha deciso: lo farà per il compleanno di Lennon. Un regalo originale, insomma. Peccato che qualcosa vada storto. Il piano fallisce. Rientra a Honolulu con la coda tra le gambe e l’ossessione ancora ben piantata nel cervello. Prova a confidarsi con la moglie, sperando forse in una reazione. Ma lei, ormai anestetizzata da anni di matrimonio spento, lo ascolta a metà, con lo stesso entusiasmo con cui si guarda una replica dei Teletubbies. Nemmeno ci prova a farlo desistere. Forse pensa stia solo vaneggiando. Forse spera che lo faccia davvero.

Mark allora si butta sulla psicoterapia. Analisi, sedute, domande, test. Ma niente. Quel pensiero è lì, più tenace di una canzone dei Bee Gees in testa alle tre del mattino. Vuole uccidere John Lennon. Punto.

A fine novembre è di nuovo a New York. Questa volta non ci sarebbero stati ripensamenti. L’8 dicembre 1980, Mark David Chapman è lì, dalle prime luci dell’alba, davanti al Dakota Building, residenza blindata del Beatle pacifista. Se ne sta sul marciapiede come un fan qualsiasi, con lo sguardo perso e un libro in tasca che gli darà tutta la giustificazione del mondo: Il giovane Holden. Che ironia.

Nel frattempo, tra una chiacchierata e l’altra con il custode del palazzo – un energumeno in livrea, stile buttafuori d’albergo viennese – Mark si atteggia da bravo ragazzo. Educato, pacato, anche simpatico quando vuole. Uno di quelli che tua madre ti direbbe: “Vedi? Dovresti essere più come lui”. Sì, come no.

Non è solo. Con lui c’è Paul Goresh, macchina fotografica al collo, aria da nerd prima che i nerd diventassero cool. Paul è il fan numero uno di Lennon, al limite dello stalking. Ma uno stalker gentile, si intende. Tempo prima era riuscito a entrare nel Dakota fingendosi tecnico della TV, con tanto di ordine di servizio tarocco. E per puro caso, proprio quel giorno, John aveva un problema con il registratore. Destino o karma? Fatto sta che Paul non scattò nulla, ma da allora diventò una specie di suppellettile umana fuori dal palazzo. Sole, neve, uragani: lui era lì, come un lampione.

Con il tempo, John iniziò a riconoscerlo, lo tollerava, quasi lo adottò. Lo ingaggiò persino per documentare il dietro le quinte di Double Fantasy. Alcuni scatti finiranno su Watching the Wheels, uscito postumo. La beffa nella beffa.

Quel pomeriggio dell’8 dicembre, Paul è di nuovo al suo posto, nervoso, scattante, pronto a immortalare l’attimo. Mark si avvicina, brandendo una copia di Double Fantasy come un trofeo, e gli chiede: “Mi fai una foto?”. Paul lo guarda, perplesso, come si guarda uno che ti chiede l’ora mentre hai l’iPhone in mano: “No guarda, io sono qui per John. Non faccio foto a caso”.

E proprio in quel momento esce John. Lì, in carne, ossa e cappotto. Mark si pietrifica. Gli si blocca il respiro e forse anche il cervello. È il custode a dargli una spintarella, tipo “forza, campione, è il tuo momento”. Mark si fa avanti, porge timidamente l’album. Paul scatta, quasi per inerzia. Ed ecco la foto che entrerà nella storia: Lennon che firma l’autografo al suo assassino. Sullo sfondo, sfocato ma inquietantemente presente, quel sorriso di Mark che oggi fa venire la pelle d’oca. Paul voleva una foto solo di John, ma quel tipo entrava sempre nell’inquadratura, come una maledizione.

Quando Mark porge l’album, John gli chiede:

Ti serve altro?”

No, grazie John.”

E se ne va, con Yoko, in limousine.

Mark lo guarda allontanarsi. Non ha avuto il coraggio di dirglielo.

Che sì, qualcosa in più lo voleva ancora.

La sua stessa vita.

Rimarrà lì tutto il giorno, Mark, come un cane fedele che aspetta il padrone davanti al supermercato. Chiacchiera con i portieri, osserva ogni movimento, inganna l’attesa con quella calma inquietante di chi sa già come andrà a finire. E quando il cielo di New York si fa scuro e l’aria diventa più tagliente, lui è ancora lì.

Alle 22:50, John e Yoko scendono dalla limousine. John lo vede. Gli lancia un’occhiata veloce, forse lo riconosce. Forse no. O forse sì, ma non ha tempo da perdere con un altro fan silenzioso con lo sguardo da agnellino. Prosegue, come sempre.

Poi, alle sue spalle, una voce:

Mister Lennon?”

Cinque colpi. Secchi. Precisi. In mezzo alla schiena.

Quando viene arrestato, Mark non oppone resistenza. Anzi, sembra quasi sollevato. Viene portato via e chiuso in una stanza con un registratore. Ed è lì che parte il concerto. Altro che confessione: è un’alluvione verbale, un’apocalisse di parole, un monologo degno di Broadway. Parla per ore. Un fiume in piena, gonfio di rabbia, solitudine, frustrazione e vanagloria. Dice di averlo fatto per la fama. Che grazie a lui Il giovane Holden diventerà un bestseller planetario (spoiler: lo era già). Dice che voleva che il mondo sapesse chi fosse Mark David Chapman. Insomma, un gesto promozionale. Più che un delitto, una campagna marketing malata.

Disse tante cose, Mark.

Disse tutto quello che non era riuscito a dire in venticinque anni di vita.

Venne accusato di omicidio di secondo grado. Colpevole, senza margini.

Condannato a un minimo di vent’anni, con l’opzione bonus dell’ergastolo.

Dal 2000, puntuale come una tassa, presenta istanza per la libertà condizionale. Puntualmente respinta, perché – dicono – la sua presenza è “incompatibile con il benessere della società”.

E poi, diciamocelo: se lo lasciassero uscire, per lui sarebbe comunque una condanna a morte.

Per spiegare il gesto, in una delle sue interviste più note, dichiarò con candore quasi surreale:

Mi sembrò l’unico modo per liberarmi dalla depressione cosmica che mi avvolgeva. Ero il nulla totale. Il mio unico modo per diventare qualcuno era uccidere l’uomo più famoso del mondo. Più famoso di Gesù.

Non un gesto di follia improvvisa. Ma la conclusione di una lunga, lentissima discesa negli abissi. Holden Caulfield voleva solo salvare i bambini dal diventare adulti corrotti.

Mark Chapman, invece, volle solo uccidere un sogno.

Più famoso di Gesù. Mark, finalmente, era diventato qualcuno.

Francesca Mezzadri 

 

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