Questa settimana per la rubrica Le Tre Domande del Libraio incontriamo Roberta Lepri, da pochi mesi in Libreria con il suo nuovo imperdibile romanzo, “La gentile”, uscito nella Collana Amazzoni di Voland.
Nata a Città di Castello, Roberta Lepri, vive in Maremma. Dal 2003, ha scritto dieci romanzi e una raccolta di racconti. Con Voland ha pubblicato “Hai presente Liam Neeson?” (2021) e “Dna chef” (2023), vincitore del Premio Letterario Chianti Narrativa 2024. Il nuovo romanzo racconta dell’americana Alice Hallgarten, che arriva in Italia all’inizio del 1900 e convince il marito, il barone Leopoldo Franchetti, a finanziare un grande progetto filantropico: la fondazione di una scuola per i figli dei contadini. La storia di Alice si intreccia così con quella di Ester, povera e senza istruzione, discendente di ebrei convertiti: una “gentile”. Una storia appassionante e avvincente che si interroga sui limiti dell’amore e sulla forza vitale dell’odio.
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Roberta, cosa ti ha ispirato a scrivere questo romanzo avvincente? C’è un evento o un momento particolare che ha acceso la scintilla per questa storia, e quale è stata la sfida più grande nel portare a termine questo libro?
Alla base di questo romanzo ci sono le mie origini umbre. Sono nata infatti a Città di Castello, il luogo dove avvennero la maggior parte dei fatti raccontati nel libro. I miei bisnonni e i miei nonni ebbero a che fare con le vicende dei Franchetti: un bisnonno da parte paterna frequentò Montesca, la scuola rurale fondata da Alice Hallgarten; la nonna materna, Ida, fu subito dopo la Seconda Guerra Mondiale una delle tessitrici di Tela Umbra, l’opificio creato da Alice nel 1908 e tutt’ora esistente. Ho sempre sentito parlare dei baroni Franchetti e ricordo che in campagna nelle abitazioni era spesso appeso il loro ritratto, quasi fossero numi tutelari. In una parte della mia testa loro esistevano già, da moltissimo tempo, ma la scintilla e poi la determinazione nello scriverne sono nate sei anni fa, dall’incontro con un saggio di M.L. Buseghin che raccoglie le lettere di Alice Hallgarten a Maria Pasqui, suo braccio destro, direttrice delle sue scuole prima e di Tela Umbra in seguito. Grazie a quelle ho ricostruito non solo la vita ma anche la psicologia dell’ereditiera americana. Una donna fortissima nel carattere e fragilissima nel corpo, sfaccettata e luminosa come un diamante.
La sfida è stata proprio entrare nei suoi pensieri e ridarle vita, ritrovare quell’energia inesauribile che lei aveva e con cui sfidava qualsiasi difficoltà, anche la malattia che la stava consumando. Anzi, ho voluto rendere omaggio a questa energia e darle un’ulteriore possibilità, un’esistenza che prosegue dopo la morte, al fianco di Ester, l’altra protagonista.
Alice e Ester sono due figure di donna ben costruite e piene di sfumature. Come hai costruito il loro carattere e, partendo da questi, vogliamo raccontare qualcosa di più sulla trama?
Alice ed Ester sono costruite una al rovescio dell’altra. Alice è ricca, Ester poverissima. Alice nasce in una famiglia che la ama, Ester viene quotidianamente maltrattata dalla madre e ignorata dal padre. Alice sposa l’uomo che ama, con cui condivide i propri ideali filantropici. Ester andrà in sposa a uno sconosciuto e non riuscirà mai ad amarlo, nonostante sia un uomo buono e tenero.
Alice è colta, Ester non riuscirà mai a saziare la propria sete di sapere né a migliorare la propria condizione sociale. Alice viene amata e sa amare. Ester non conosce amore e non sa darne.
Eppure, Ester ha tutto ciò che ad Alice manca: una salute incrollabile (Io sono forte come una barra di ferro, dirà di sé con orgoglio) che le farà attraversare indenne due guerre mondiali e un’epidemia di Spagnola, e la capacità vitale di mettere al mondo un figlio dopo l’altro. Là dove una vince, l’altra inesorabilmente viene sconfitta. Si incontrano, c’è l’iniziale illusione di riuscire a cambiare in meglio; da parte di Ester prende corpo il sogno che avvenga un miracolo e che Alice la possa salvare di colpo da un’esistenza dolorosissima. Ma Alice ha tutto il suo popolo di bambini a cui pensare, non si concentra su una sola realtà, deve correre perché la sua vita ha un orizzonte temporale sempre più piccolo. Ed Ester – brava ma non troppo, intelligente ma non troppo – viene lasciata indietro. Il sogno va in pezzi. Ed ecco che l’affetto di Ester per la sua benefattrice diventa rancore. Un sentimento di ingratitudine onnipotente, capace di creare un vincolo che va oltre i limiti imposti dalla ragione. Alice verrà costretta dall’odio di Ester a rimanere come testimone della sua vita difficilissima. Fino a quando anche l’abbandono troverà un suo motivo, e ognuna arriverà ad accogliere le ragioni dell’altra. Ma ci vorrà una vita intera.
Il contesto sociale in cui si muovono
Alice e Ester è molto vivo nel romanzo. Quanto é contato per te nella costruzione della storia, ma soprattutto, a partire dal rapporto complesso tra i personaggi, cosa volevi raccontare sulle relazioni umane?
Il romanzo abbraccia un lungo periodo storico, che inizia nel 1900 e termina con la fine della seconda guerra mondiale. Il contesto sociale in cui visse Alice era talmente alto da poter essere difficilmente compreso anche ai nostri giorni: gli Hallgarten erano ebrei sefarditi newyorkesi, Il padre – uomo di affari di successo nel campo farmaceutico e socio della banca Hallgarten & Co., era stato presidente del Mount Sinai Hospital di New York, e morendo aveva lasciato alla figlia un’eredità milionaria. Sposando Leopoldo Franchetti, a sua volta facoltosissimo, Alice diventa una delle donne più ricche del tempo. Tant’è che appena giunta a Roma diviene amica di Sibilla Aleramo e di tutti i personaggi più in vista di quell’epoca. Un periodo di cambiamenti rapidi. La stessa Alice, vendendo rimpiazzare la sua carrozza con un’automobile Lancia, capisce che il mondo in cui è cresciuta verrà presto spazzato via ma non ha tempo per i rimpianti e abbraccia con entusiasmo la modernità come innovazione nell’educazione (Hallgarten fu entusiasta sponsor di Maria Montessori e pagò la prima stampa del Metodo scientifico per l’educazione dei fanciulli) e nel lavoro (con la creazione di Tela Umbra in cui mise al lavoro soprattutto giovani madri a cui dava la possibilità di tenere vicini i bambini con delle vigilatrici, di fatto creando un primo “nido aziendale”).
Il contesto sociale di Ester è quello di una plebe stracciona e senza istruzione di un piccolo paese lontano da tutto, che vive di lavoro subordinato spesso pagato a giornata; ma anche quello di una realtà rurale poverissima, in cui i mezzadri, contadini che non possedevano la terra su cui lavoravano, erano poco più che servi della gleba. E trattati come tali. Qualcosa che conosco molto bene, ho ancora i libretti colonici della famiglia Lepri dal 1916 al 1954 e so quali obblighi avevano e in quali condizioni si trovavano a vivere. È su questa realtà che agiscono i Franchetti, di fatto dando alle nuove generazioni dei loro subalterni i primi mezzi per arrivare a contestare il sistema che li opprimeva: sapere leggere e scrivere, poter controllare i contratti capestro che venivano fatti firmare solo con una croce. Volevo raccontare di come in quei luoghi sia stato piantato il seme di una maggiore giustizia sociale. Qualcosa che ha avuto facilitazioni da parte di menti illuminate come quelle dei Franchetti ma che ha avuto successo nel tempo solo grazie alla forza di una massa di persone diseredate come Ester.
Ester che è forte quando smette di sperare (Una speranza, a volte, indebolisce le coscienze come un vizio, scrisse Elsa Morante) e inizia a odiare.
Perché ci salviamo e ci danniamo da soli – con le nostre mani e in solitudine – questo era il punto a cui volevo arrivare. Perciò sbagliamo e soffriamo e alla fine non rimane che cercare di capire.
Ester e Alice ci riusciranno insieme.
Buona Lettura de “La Gentile” di Roberta Lepri.
Antonello Saiz