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L’amore inutile. Intervista a Gianfranco Di Fiore

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Col finire di gennaio è arrivato in libreria il nuovo romanzo di un autore parecchio apprezzato, Gianfranco Di Fiore, con “L’amore inutile”.  Lo scrittore torna negli scaffali delle librerie dopo il successo riscosso con “Quando sarai nel vento”( uscito per 66thand2nd), pubblicando questo suo terzo romanzo, che è anche il ventiduesimo titolo della collana “Orso bruno” di Wojtek Edizioni. Il libro è già stato candidato alla prossima edizione del Premio Strega da Valeria Parrella con la seguente motivazione:
“Il romanzo mantiene ciò che il titolo promette. È durissimo da leggere: è la storia – sembra a lungo privata, d’altri tempi, personale – di un intellettuale che ha una relazione telefonica con una ragazza frivola. I due hanno bisogno l’uno dell’altro perché uno non ha più rispetto di sé e l’altra non ha più quella bellezza fisica che riteneva essere la sua chiave d’accesso al mondo. Terribile il rivelarsi che in realtà in ballo ci siamo tutti, e lo spreco, l’inutilità non sono affatto storia d’altri”

Antonello Saiz

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Gianfranco dopo un romanzo complesso e corposo sulle relazioni, candidato pure allo Strega nel 2018, arriva questo “L’amore inutile” che sembra, per certi versi, quasi voler approfondire e sviluppare e focalizzare al meglio alcune delle tante tematiche già presenti in “Quando sarai nel vento”, che, tra le altre cose, abbiamo distribuito nel nostro ultimo Gruppo di Lettura ,”Diari da Leggere”, e dove ha incontrato il favore dei nostri partecipanti e innescato discussioni e stimoli e turbamenti tra i nostri lettori fortissimi. Qui tutto sembra virare verso una maggiore crudezza, tutto è più amplificato, più sporco e cattivo. Ci vuoi raccontare del tuo approdo alla casa editrice di Pomigliano D’Arco e il processo di maturazione della tua scrittura in questi anni, portandoci nell’officina di lavorazione di “L’amore inutile”?

Confermo che “L’amore inutile” contiene residui e rumori del mio romanzo precedente (Quando sarai nel vento) e che sono molto felice del fatto che si possano rintracciare nella mia ultima opera echi e solchi già scavati nel mio passato letterario, un passato da sempre vissuto come un continuo divenire, un presente che mai si compie e che mentre si fa precipita in una tenera malinconia verso ciò che ho già scritto; ma aggiungo qualcosa in più, in tutti i miei libri – non solo i tre romanzi ma anche i racconti pubblicati in antologie – ci sono tanti personaggi, situazioni, colori, atmosfere, stilemi e rimonte, ellissi e riscritture di sequenze o di intere pagine che si rincorrono da un libro all’altro, come api, o forse sono più simili a formiche che dopo aver lavorato e sofferto per lo stesso cibo si perdono, per ritrovarsi dopo anni, deformi ma ancora “attive”, dinanzi a un nuovo sentiero, in attesa di nuovo cibo “narrativo”, in un altro scritto.
Mi piace pensare che i miei romanzi siano organi o organismi che abitano un solo corpo, tendini e muscoli che una volta attivati producano sforzi e sudore per tenere insieme una sola “massa” narrativa. Ed è per questo che già ne “La notte dei petali bianchi” si trovano germi di “Quando sarai nel vento”, e in questo secondo vi sono argomenti e mondi e sfumature riprese poi ne “L’amore inutile” (che a sua volta contiene ambientazioni e colori e tracce che verranno riprese e rimodulate nel mio quarto romanzo, che è a buon punto già da un paio d’anni). La vera sfida, per me, da sempre, è lavorare e scrivere libri tutti diversi, mantenendo però una poetica e una voce riconoscibile: non mi metto mai in una posizione comoda, così come non stanno mai comodi i miei personaggi; ho bisogno di guardare altrove, abissi più che altro, e poi impiccare l’ambizione sempre più in alto, così che lo sguardo – seppur obliquo e dolente, sugli oggetti e le storie da scrivere – possa allargare i limiti della percezione e giungere in luoghi e storie a me sconosciuti. È forse questo che più caratterizza la mia estetica: una radice profondamente realistica che si innerva, quasi per necessità, in un terreno iper realistico. Per alcuni anni “L’amore inutile” e “Quando sarai nel vento” li ho portati avanti in parallelo, anche se per il primo mi limitavo a lavorare alla struttura e alla scaletta dell’opera, mentre per il secondo ero già in fase di stesura effettiva; volevo dedicarmi a due libri diametralmente opposti, uno che potesse esplodere fino al punto di abbracciare il mondo intero, o almeno una gran parte, che vivesse di tante storie e sottotracce, di molti personaggi, di luoghi esotici e tutti riconoscibili, volevo che il lettore camminasse proprio dove io avevo camminato, che mangiasse il cibo che avevo mangiato, che annusasse odori che io avevo annusato; era il grande libro della vita, che da piccolo sognavo di scrivere, e volevo che potesse arrivare a definire tutti i “mondi” letterari e ancor più i linguaggi da me studiati e conosciuti (il cinema, la musica, la fotografia, l’arte, la filosofia). L’amore inutile invece volevo fosse ridotto all’essenziale, anche se poi questo grumo stanco ed esploso, sulla carta, si è infiammato di violenza emotiva, di freddezza urticante, e non so quanto la riduzione a due soli personaggi, senza nome, che vivono in luoghi anonimi, questa desertificazione di coordinate abbia agito da detonatore per far divampare una spietata violenza narrativa.
È stato di certo anche un processo evolutivo, spero, riguardo alla scrittura: volevo spogliarmi di tutta una serie di incastri, di manie analitiche, di definizioni rigide, di strutture mirabolanti per vedere – o magari provare a capire – cosa poteva esserci sotto le ossa, sotto la cenere della mia affastellata narrativa. Per ciò che riguarda il mio approdo a Wojtek è stato del tutto naturale. Sono uno scrittore lento, lavoro tantissimo, dieci/undici ore al giorno per almeno 5 o 6 anni, non mi occupo di editoria, di mercato, di numeri, parlo e mi confronto con poche persone, fra queste vi è Ciro Marino, che è sempre stato attento e ammirante verso la mia scrittura: più volte in questi anni mi ha proposto di pubblicare con lui e io penso di aver scelto il libro migliore possibile, per condividere quest’avventura insieme. Fiducia, stima, amore profondo per la letteratura, è bastato poco per capirsi.

     
-“Sono io”, sussurrò appena, e di colpo lui si ritrovò intrappolato nel soffio tenue della sua voce…” 
Sono due le voci e due i personaggi protagonisti di questa narrazione. In un romanzo sensoriale sull’immaginazione, dove tutto è giocato sulla possibilità di innamorarsi di una voce, ci sono un uomo e una donna parecchio distanti tra loro. Eppure, sia Lui che Lei, si ritrovano in quel terreno scivoloso, virtuale e poco virtuoso, della solitudine e della insicurezza. In questo nostro spazio, parecchio visualizzato di Satisfiction, ci piace attraverso poche domande, portare dentro il romanzo il lettore, e incuriosirlo attraverso i personaggi che lo animano. Ecco partiamo dalla irrisolutezza di Lui…

LUI è un ragazzo poco più che trent’enne, figlio unico, isolato per scelta in una piccola città del sud dove i sogni e le consapevolezze sembrano apparire come miraggi all’orizzonte, foschia leggera sul far del crepuscolo, e svanire presto dietro i vuoti accatastati dentro l’anima, mai del tutto accesa di vita, e nelle insicurezze che spesso germogliano in quelle personalità complesse e creative, che come LUI provano a non soccombere alla colpa dei genitori, e alle nuove colpe di una contemporaneità che non ha più tempo né attenzione per il diverso, o per chi non vuole accontentarsi di avere un posto nel mondo ma va alla ricerca del proprio posto specifico.
Avevo bisogno per questo romanzo di tenere stretti i sentieri della narrazione, se nel precedente libro tanti erano i luoghi, le vie, le direzioni, le tracce, le storie, i simboli che ingrossavano la il segno drammatico sulla pagina ne “L’amore inutile” sentivo che necessario era l’invisibile, il fuori campo, l’assenza, tutte le cose non definite, mettere a lato della scena questo protagonista che sembrava sul punto di farsi, già di essere e di capire se stesso, per poi coglierlo in quell’attimo crudele e inaspettato della rovina, del crollo, proprio mentre pensava di poter accogliere LEI e i suoi drammi non stava facendo altro che volare in alto, prima di precipitare da una scogliera. E più della caduta, più del mondo intorno, delle onde capaci di farlo muovere e agire nel caos della vita e della sua irrisolutezza trovavo interessante guardare sotto, nel suo abisso, provare a scandagliare quel moto gelido e mai visibile che le persone – spesso giovani – lasciano da parte sperando di poterne evitare la risacca, di vincerlo prima di invecchiare (bene). Come vive dunque un giovane trentenne non realizzato, con vaghe idee sulla fotografia e l’arte, in una spenta provincia del sud, cresciuto in una famiglia modesta? In che modo guarda al mondo e agli altri? Quanto pesa e a quanto aspira lo sguardo di un tale uomo che non sa più dove guardare, che usa la fotografia apparentemente per ricordarsi di sé, quasi platonicamente, e che magari seziona e cristallizza facce ed eventi solo per imparare a dimenticare? A chi, oggi, in un mondo illusoriamente accessibile e veloce, aperto a tutto, tranne che al dialogo attento, all’ascolto, a chi un tale giovane abbandonato alla noia della piccola città natia può rivolgere il suo grido d’aiuto? L’arte e il suo limite, la provincia e i suoi limiti, la giovinezza e la limitata voce della speranza: credo LUI sia una sintesi obliqua di tutte queste domande non risolte, almeno in partenza.

 
“Quando una donna smette di parlare è solo per nascondere un dolore…” inizia con queste parole L’amore inutile. Gianfranco, vogliamo provare a entrare nel mondo di Lei e del suo dolore?

LEI è di gran lunga il faro poco luminoso che prova a dettare le traiettorie da seguire all’interno del libro. La sua struttura è stata assemblata nel tempo, in diversi anni, ho dovuto lavorare tantissimo per arrivare a una definizione soddisfacente perché più ne scrivevo, più ne vivevo (di pezzi di lei, fra le donne che incontravo o di cui sentivo parlare), più mi accorgevo che oltre il personaggio, o forse è meglio dire prima ancora del personaggio di LEI vi era un residuo ingombrante, eccessivo, un grumo concettuale da risolvere che non aveva a che fare con lei femmina, né con lei donna ma che arrivava direttamente da quella dimensione del “femminile” che era ciò che più mi interessava raccontare. È così vasto e inafferrabile, per eccesso di colori e grandezze, l’universo femminile, che lo si può unicamente avvicinare da lontano, scrutare, provare ad averne contezza attraverso uno sguardo attento e scrupoloso che spesso non arriva né a definire quella dimensione articolata né permette a noi uomini di coglierne radicalmente la potenza. Così mi sono chiesto in che modo poteva risultare credile una LEI in questa contemporaneità, immobile, ritratta, congestionata in un corollario infinito di scatti, di materiale video, di rappresentazioni che mai sono e mai possono divenir copia reale e credibile della donna ma ne offrono soltanto una rappresentazione depotenziata. Tenendo ben presente sullo sfondo l’alterità virtuale, la dispersione del linguaggio in surrogati didascalici da incollare agli oggetti a cui sempre più si affida la narrazione dei corpi (foto ma non solo), ho trovato fosse necessario andare a ritroso e lasciare LEI in una sorta di monade percettiva, una dimensione atemporale, metafisica, oppositiva al giudizio, in cui di LEI non rimanesse altro che un vapore, una massa iniziale e inerziale, una vertigine di elementi senza padrone, senza direzione, priva di ogni consapevolezza per capire in che modo, dopo essersi ridotta al niente del silenzio, poteva ritornare alla vita, a vedersi, questa massa ricomporsi per squarciare le pareti di una monade divenuta ormai corpo per tentare di tornare ad abitarsi, e ad abitare il mondo senza dover più preoccuparsi di piacere, dei piaceri, di vivere per gli altri (giudizi) ma unicamente per la sua propria natura, quale che fosse. LE I è tutto ciò che possiamo vedere (da uomini) quando non sappiamo guardare.

Buona Lettura de L’amore inutile di Gianfranco Di Fiore.

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