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A Berlino con David Bowie. Intervista a Francesco Bommartini

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Per le Tre Domande del Libraio su Satisfiction questa settimana incontriamo Francesco Bommartini, in libreria in questi giorni con “A Berlino con David Bowie” , pubblicato nella Collana Passaggi di Dogana di Giulio Perrone Editore. Un libro capace di far luce sul legame di Bowie con Berlino e l’influenza che questa città ha avuto sul suo lavoro artistico. Musicista e musicofilo, oltre che giornalista pubblicista, Bommartini approfondisce il rapporto tra musica e internet attraverso il suo canale YouTube e collabora con numerosi siti, quotidiani e riviste. Ha scritto quattro libri, tra cui Riserva Indipendente – La musica italiana negli anni Zero, pubblicato da Arcana.


Francesco, nel nuovo Passaggio di Dogana, ci viene raccontata la città di Berlino attraverso la figura e il soggiorno di David Bowie: dalla sua casa di Haupstrasse 155 al Brucke Museum, passando per la Porta di Brandeburgo e il Connection Club. Cosa ti ha spinto a scrivere un libro su David Bowie e il suo periodo a Berlino e se c’è un momento o un aspetto specifico della sua vita in quel periodo che ti ha particolarmente colpito?

Mi ha spinto innanzitutto la passione per la città, che ho visitato una decina di volte dal 2009. E poi certo, la figura di David Bowie è stata per me sempre affascinante. E lo è diventata ancora di più quando ho cominciato ad approfondirla. Forse il momento che mi ha colpito maggiormente di quel periodo è stato quello iniziale, nel 1976, in cui è cominciata una rinascita dopo un periodo losangelino viziato da cocaina e da uno stato psicofisico tutt’altro che ottimale. Bowie ha avuto il coraggio di cambiare pelle un’altra volta, trasformandosi nel Thin White Duke e catapultandosi nella nuova città, passando prima per un castello francese in cui ha affrontato le registrazioni di “Low”, terminate poi negli Hansa Studio di Berlino. Sotto il profilo artistico questo cambiamento è stato lapalissiano, sia effettivo che in termini di lavorazione. “Low” é il mio disco preferito della cosiddetta trilogia berlinese, quello in cui percepisco maggiormente sia la vita di Bowie con tutte le sue criticità dell’epoca sia l’atmosfera dell’approccio a Berlino: “A new career in a new Town”, parafrasando una canzone dell’album.

David Bowie è spesso descritto come un artista che ha saputo reinventarsi. Condiderando il periodo da cocainomane e, poi, la guarigione umana e artistica, vogliamo raccontare in che modo questo processo di reinvenzione si è manifestato durante questo periodo e come il contesto storico e culturale di Berlino negli anni ’70 ha influenzato la musica di Bowie?

Il cambiamento è stato profondo. In quel periodo Bowie si è liberato, innanzitutto dalle aspettative della RCA, la sua casa discografica dell’epoca, che inizialmente era contraria alla pubblicazione di “Low”, troppo alieno per le loro aspettative. Questo non significa che poi abbia fatto solo capolavori riconosciuti dalla critica, ma senza dubbio gli anni nella capitale tedesca gli ha dato una serenità di fondo, dovuta anche al fatto che a Berlino non era riconosciuto come la rockstar quale già era a fine anni settanta dopo i successi di “Ziggy Stardust”, “Aladdin Sane” e “Hunky Dory”. E di fatto proprio a Berlino si è anche salvato la vita, con il sostegno dell’assistente speciale Coco Schwab e l’amicizia di Iggy Pop, anch’egli alle prese con un’altra dipendenza potenzialmente mortale, quella dall’eroina. Un vero e proprio processo di redenzione che è passato attraverso tanti luoghi e altrettanti stimoli, nottate bagnate dall’alcol e dai sogni, incontri decisivi dal punto di vista artistico come quello con Brian Eno.

Molti considerano gli album “Low”, “Heroes” e “Lodger” come una trilogia fondamentale della carriera di Bowie. Qual è, secondo te, l’album che meglio rappresenta il suo soggiorno a Berlino, e, poi, qual è stata la reazione del pubblico e dei critici alla musica di Bowie in quel periodo, considerando il suo cambiamento radicale di stile rispetto agli album precedenti?

La reazione della critica è stata spesso ambivalente. D’altronde, nonostante la trilogia fosse stata in parte anticipata da alcune atmosfere di “Station to Station” pubblicato lo stesso anno del trasferimento di Bowie a Berlino, l’approccio a dischi così sperimentali può essere complesso. Se “Low” l’album per me più stupefacente, forse quello che rappresenta meglio il periodo berlinese è “Heroes”. Anche perché si tratta dell’unico dei tre registrato e concepito completamente in città, negli Hansa Studios, che all’epoca si trovavano vicino al muro, in Potsdamer Platz. Qui è contenuto anche l’omonimo brano che si è inserito a piedi pari nella storia della musica, “Heroes”, scritto con le virgolette dallo stesso Bowie per rendere meno rigido il termine. Ho avuto il piacere di visitare gli studi e di vedere la sala da cui l’artista inglese vide il bacio galeotto tra la corista Antonia Maas e il suo produttore è amico Tony Visconti. Un’emozione unica che descrivo nel libro assieme a tanti luoghi che hanno rappresentato un senso per Bowie e quel periodo storico.

Buona Lettura di di ” A Berlino con David Bowie” di Francesco Bommartini.

Antonello Saiz

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