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Valerio Valentini anteprima. Ci sono molti modi

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Una solidarietà brutale: “Ma un uomo che cerca clemenza in un cappio, senza dover più rispondere a inutili domande e baci a Natale e Pasqua, lo capisco. E ora che posso, se ha bisogno di me per stringere il nodo, lo aiuto.”

Ambizioni bestiali: “In fondo, non ci vuole tanto impegno per affrontare la giornata se devi solo alzarti, forse lavarti e guadagnare quel poco che serve per restare in vita. Certo, forse a sessant’anni avrò bisogno di qualcosa in più, speriamo che da qui a vent’anni Xanax e puttane saranno mutuabili”.

Una visione cruda: “La verità è che qui, dove vivo, è umido. L’umidità mi attrae a sé inesorabile e non riesco a fare altro che subire questa lenta liquefazione del mio corpo. Diventerò vapore e sarò visibile solo di notte, sotto i lampioni accesi al bordo della strada”.

Un decollo espressivo: “Eravamo in due. Ma sono nato solo io. Ho ucciso mio fratello mai nato perché, a detta di mia madre, sono stato più forte di lui, a detta di mio padre, più svelto, o non si sa, forse l’ho semplicemente convinto. Fatto sta che qualsiasi sia il motivo per cui sono nato solo io, quello è stato l’unico slancio rilevante della mia vita.”

Ci sono molti modi, in uscita il 7 marzo per ReaderforBlind (pp. 272, € 17), segna il debutto nel romanzo di Valerio Valentini, autore capace di dare voce alle inquietudini e alle contraddizioni della provincia romana. Un territorio di confine, tra il cemento e il mare, dove si intrecciano solitudini, speranze tradite e battaglie silenziose.

Valerio Valentini è autore delle raccolte di racconti Evoluzioni (Rogas Edizioni) e Gli insetti sono tutti a dormire (Edizioni La Gru). Ci sono molti modi è il suo primo romanzo.

Al centro della storia c’è Riccardo, 33 anni, una laurea che non gli ha aperto alcuna strada e una vita sospesa in una casa prestata da una zia a Ladispoli, terra di margine tra la promessa sfumata di Roma e la realtà cruda della periferia. Il suo sguardo è cinico, disincantato, ma ha trovato il suo posto in un mestiere insolito: aiutare chi ha deciso di smettere di lottare, accompagnandolo nel suo ultimo passo.

Ci sono molti modi per morire, dice Riccardo. Ma tra le pagine di questo romanzo scopriamo che esistono altrettanti modi per resistere. La periferia è una gabbia e un rifugio, un limbo in cui si sopravvive aggrappandosi ai ricordi, ai rimpianti, ai sogni spezzati. Con una scrittura tagliente e immagini di grande impatto, Valentini cattura il rumore e il silenzio di un’esistenza ai margini, restituendo una realtà intrisa di malinconia e disillusione.

Nel suo primo romanzo, l’autore non fa sconti e non addolcisce nulla: mescola introspezione e ironia amara, lirismo e brutalità, raccontando una storia di identità e sopravvivenza in un mondo privo di certezze.

Valentini con una prosa a tratti poetica a tratti scientifica ed esistenzialista, offre il rigore e la precisione della scienza insieme alla libertà espressiva della poesia e della riflessione filosofica.

Una prosa cruda e ironica, in cui il linguaggio diretto riflette una visione della vita e della morte disincantata e, allo stesso tempo, carica di significato. Uno stile che tocca la mitologia classica e il simbolismo poetico, fino a sfiorare le corde del pensiero esistenzialista e della narrativa trasgressiva contemporanea.

Ci sono molti modi fa pensare e non si dimentica, è un viaggio nella periferia di un’umanità in bilico tra resistenza e resa. Un romanzo che è più di una storia perché le storie di un vero scrittore nascono già con uno stile.

Carlo Tortarolo

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Ricordo zio Sthepan seduto davanti alla tela vuota. In particolare, ricordo di quando mi prendeva sulle sue ginocchia mentre cercava di insegnarmi a usare la pittura senza sporcarmi di colore. Non disprezzava i grandi colpi di pennello su tele già usate, macchie grandi di vernice che si allargavano su altri colori e su immagini già impresse da qualcun altro.

Zia Gianna si appoggiava all’angolo della porta della cucina e lo guardava, ogni giorno con gli occhi dell’amore; quello vero, quello per cui combatti costantemente. Lui, costretto sulla sedia a rotelle, già senza lavoro da qualche anno, si trascinava di stanza in stanza senza chiedere l’aiuto di nessuno. In poco tempo le mani gli si erano riempite di calli grossi e duri come noci. Il fisico, asciutto per natura, gli si era quasi prosciugato, come se a quel corpo avessero tolto il tappo e tutta la vitalità fosse uscita come lo spumante a Capodanno. Si stava consumando sotto gli occhi della moglie per via del cancro. Quando non era a casa, Gianna lavorava nella cucina di un ristorante per dodici ore al giorno. Faceva tutto quello di cui c’era bisogno, andando ben oltre le sue mansioni. La paga non era un granché, ma qualcuno doveva pur portare i soldi a casa.

Avanzo piano mentre continuo a guardarmi intorno alla ricerca dei miei ricordi. La porta finestra centrale è rimasta semiaperta per tutto questo tempo, dando così modo a cartacce e foglie secche di irrompere in casa di zia, creando un tappeto di immondizia che si è andato a confondere con le mattonelle del salone. Ormai non riesco più a capire di che colore sia il pavimento.

Ci sono ancora dei mobili che zia ha lasciato in casa; il divano di pelle su cui lei amava sdraiarsi è coperto da uno strato di polvere, la muffa sui cuscini si è allargata formando delle chiazze maleodoranti. Una credenza a vetri è stata spostata in fondo alla stanza, ha uno sportello inclinato da una parte e l’altro rotto e la poltrona di finto cuoio, dove Stephan dondolava in attesa dell’ispirazione per creare le sue tele, è rimasta ancora lì, davanti a un enorme finestrone. Se lo era fatta costruire apposta dal falegname grazie al taglio di un pezzo di salone, voleva simulare una veranda nella quale, secondo i suoi piani, sarebbe dovuto invecchiare con Gianna.

Diceva sempre che secondo lui esistono due tipi di persone: uno da veranda e l’altro da finestra; la finestra è il simbolo per eccellenza dell’attesa, la veranda no, perché si tratta di un posto dove invecchiare. Era in grado di passare le ore su quella poltrona a guardare al di fuori del finestrone una natura ovattata dal grigio della città, immaginando ci fosse un bosco, lo stesso bosco che poi riportava sulle tele e dentro al quale si figurava protagonista della sue opere. L’ultima volta che ci parlai qui in casa, mi disse che forse avrebbe dovuto far montare una finestra, sarebbe stata più adatta alla fine che il destino aveva voluto per lui.

Tutte le porte che danno alle altre stanze sono chiuse, spero non a chiave, altrimenti dovrò buttarle giù, ammesso che ci riesca. Il mio pessimismo viene subito smentito; la stanza da letto è grande e quadrata, con le pareti colorate di marrone chiaro e chiazzate dall’umidità. Un odore forte di foglie bagnate e di naftalina riempie l’ambiente. Anche qui, la finestra sul lato opposto è aperta e rotta, sbilenca su un lato, ammettendo all’intimità della camera matrimoniale un venticello tiepido che mi accarezza la faccia. Chiudo gli occhi e respiro forte quel profumo, il cuore comincia a battermi così forte che devo sedermi sul letto e premermi il palmo della mano sullo sterno, poggio la schiena sdraiandomi con le gambe che mi scendono penzoloni di lato.

Quando Stephan scoprì di essere malato, rimase come me, con le gambe nel vuoto a dondolare sulla poltrona, la cartella con i risultati in grembo. La stringeva così forte che nel punto in cui aveva fatto pressione, la carta si era increspata. Non aveva parlato per ore da quando era rientrato dall’ospedale insieme a zia Gianna. Lei si limitava a guardarlo da dietro le spalle, un braccio incrociato sotto l’altro, mordendosi l’interno della guancia fino a sentire il sapore del sangue defluirle nella bocca, vizio che, quando era nervosa, si accentuava più del solito. Lui le ripeteva sempre che se avesse continuato a mordersi a quella maniera, il nervoso l’avrebbe uccisa. Lei si limitava a rispondergli che di qualcosa si doveva pur morire; infine sorridevano e si abbracciavano stretti come se uno completasse l’altra. Questo succedeva quando le cose andavano male, ma quel giorno no. Lo ricordo bene perché ero in casa, ancora non capivo bene la morte, ma già avevo la sensazione di sentirla addosso; un’aria pesante e spettrale aleggia intorno alle persone che stanno per mollare e Stephan ce l’aveva tutta intorno. Un’aureola di catrame che lo faceva mettere in guardia, cercava di non darla a vedere alla moglie, ma io seppi riconoscerla. Tra noi ci fu quello che ancora oggi credo sia stato uno sguardo di comprensione; con zia, invece, ci fu un comodo inganno. Lui si voltò a guardarla per la prima volta da quando erano rientrati. Aveva gli occhi lucidi e rossi; cercò di sorridere come se avesse tirato fuori la battuta più esilarante del mondo, Gianna ricambiò non riuscendo bene come il marito, poi Stephan si lisciò i baffi bianchi macchiati all’altezza del centro della bocca dalla nicotina e si rimise a guardare fuori dalla veranda.

«Puoi portarmi un caffè e un sigaro?», chiese zio.

Gianna lo guardò come se non le sembrasse il caso. In quel preciso istante avrebbe voluto parlare, sapere cosa passasse per la testa del marito, affrontare il “problema” fino allo sfinimento, poi andare fuori, camminare anche con le piaghe ai piedi, e poi fermarsi al centro della strada e urlare, ma lui continuava a fissare fuori, immobile.

Nei mesi successivi Gianna continuò a lavorare al ristorante, sebbene avesse ridotto alla metà i turni lavorativi per stare vicina al marito. Lui, da parte sua, aveva smesso di dipingere; la rassegnazione sussurrava nella sua coscienza che non avrebbe potuto fare nulla per sentirsi meno infelice, ma non avrebbe voluto lasciare la moglie e il figlio, non voleva lasciarsi consumare dalla malattia, anche se non aveva la forza di combatterla. Ormai passava giornate intere senza parlare e le uniche volte in cui apriva bocca, significava che nei suoi pensieri era arrivato a un punto in cui ogni tassello aveva trovato il proprio posto nell’ordine delle cose. Allora ridacchiava, chiamava Gianna e si faceva leggere una pagina del giornale a caso; adorava essere spiazzato e andare in disordine. Tutte quelle notizie erano pezzi di un puzzle che lui doveva ricollocare nel punto esatto. Lei lo sapeva che era un gioco e, anche se non aveva voglia di assecondarlo, si sdraiava sopra al divano accanto a lui, distendeva le gambe e cominciava a leggere, cercando di non far percepire al marito la minima inflessione vocale strozzata dalle lacrime.

Passavo molto tempo a casa loro prima che zio Stephan si aggravasse; anche dopo continuai ad andare ma, quando zia veniva ad aprirmi la porta, mi accompagnava la sensazione che fosse sempre meno felice di trovarmi lì. Non credo non volessero avermi tra i piedi: credo più per non mostrarmi quella faccia della vita che si era palesata nella loro esistenza. Zia aveva la consapevolezza che la morte non fosse l’epilogo della vita, ma l’inizio di una reazione a catena che avrebbe investito anche me se solo l’avessi conosciuta in quel preciso istante. Ecco, pareva fosse sempre il momento sbagliato per andare a trovarli. Entravo lo stesso, lo feci quel giorno e tutti i giorni che seguirono la malattia. Stephan si aggravava sempre di più; aveva deciso, di comune accordo con Gianna, di non intraprendere nemmeno un ciclo di chemioterapia, affermando alla moglie di voler vivere in sofferenza, ma lucido fino all’ultimo istante.

Fu in quel preciso momento che Gianna decise di andarsene, di prendere, mollare tutto e passare gli ultimi mesi insieme al marito nella casa che possedevano a Londra. Così, in una settimana, senza consultare medici, amici e famigliari, i due si trasferirono e io rimasi per la prima volta solo. Imparai allora che nessuno di noi è come sembra, che dobbiamo mantenere le apparenze per poter sopravvivere.

Qualche mese dopo zio Stephan cominciò a perdere ancora più peso, aveva sempre meno energia, voglia di combattere. Decise allora di lasciarsi abbandonare, nonostante gli sforzi di Gianna per fargli sentire il suo apporto. Non parlavano quasi più, non leggevano insieme. Zio Stephan si faceva accompagnare alla loro panchina in un parco vicino casa e chiedeva a Gianna di andarsene, lei lo osservava da dietro un albero spegnersi giorno dopo giorno, mentre fissava le aiuole vicine con lo stesso sguardo che pensava di aver lasciato in Italia. Passarono tre settimane soltanto, o almeno così mi raccontò zia al telefono dopo avermi comunicato che sarebbe rimasta a vivere a Londra. Poetizzò quell’ultimo istante, creando un racconto che ne mostrasse il lato umano, ma non c’è nulla di poetico nella morte. Mette a disagio le persone, ma, con il tempo, ha smesso di fare presa su di me, io non sono come gli altri e il cordoglio è qualcosa che non riesco a fingere; per me è tutto bianco o nero e la morte è il nero senza poesia.

Zia, senza morire, si spense quel giorno; cominciò a sentirsi sola, svuotata. Passava intere giornate a letto, non voleva vedere nessuno e anche il rapporto con il figlio lontano, da quando si era sposato, non era più lo stesso. Si era chiusa in sé stessa, alternando momenti di felicità assoluta a momenti di buio totale. La prima diagnosi fu depressione e zia Gianna se la fece bastare. Accettò questa mannaia con la noncuranza con cui si prende una gomma da masticare quando qualcuno ti porge il pacchetto.

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