Anche le stelle sono scomparse, affogate nelle profondità dell’acqua immane che incombe dall’alto del cielo, scandendo con boati – rintocchi di un destino inevitabile- gli ultimi giorni di vita degli uomini sulla terra, prima di cadere su di loro, su tutto, e tutto spazzare via. Per sempre. È finita lì, nel cielo, l’acqua che non piove più, accumulata senza una spiegazione, in uno spietato capovolgimento carnevalesco della natura. Un mare rovesciato, che si agita minaccioso sulla testa del mondo.
Di fronte alla fine, l’umanità è immobile, sopraffatta dall’angoscia. Anche i genitori del piccolo protagonista non sanno come affrontare l’inevitabile: il padre, terrorizzato, impone alla famiglia di barricarsi in casa, mentre la madre si aggrappa disperatamente a una normalità ormai svanita. Ma l’equilibrio familiare si spezza del tutto quando, in un gesto incomprensibile e disperato, decidono di avere un altro figlio proprio mentre tutto sembra destinato a dissolversi. Incapace di accettare questa scelta, il bambino fugge di casa e si ritrova solo in una città in rovina, immerso in un’umanità smarrita, priva di ogni compassione. La sua unica salvezza sarà ritrovare la strada di casa.
Il signore delle Acque di Giuseppe Zucco ci mostra cosa accade alla nostra umanità di fronte a una catastrofe: chi siamo quando non abbiamo più niente? Quando la sopravvivenza è l’unica cosa che conta? Cosa ci tiene legati agli altri e alla vita stessa? Una storia distopica che assume i contorni di un romanzo di formazione, dove i veli dell’innocenza cadono, permettendo al giovane protagonista di vedere la realtà per ciò che è. Attraverso i suoi occhi assistiamo al crollo del mondo esterno e, con esso, alla frantumazione del suo mondo interiore. Un bambino che, nel passaggio dall’infanzia alla disillusione dell’età adulta, scopre il “sapore acidulo della libertà” e l’indifferenza di un mondo ormai al limite della sua ultima notte.
L’apocalisse è giunta e l’ordine delle cose è saltato. La realtà ha cambiato forma, trasformandosi in qualcosa di sconosciuto, irriducibile a qualsiasi legge rassicurante. Ma se nell’essenza stessa della parola ‘apocalisse’ è racchiuso anche il senso di rivelazione, allora, sull’orlo dell’abisso, la vera natura delle cose umane si disvela. L’incombere della fine del mondo frantuma ogni maschera e, quando tutto sembra perduto, quando non resta più speranza e le architetture del reale si sgretolano, proprio in quelle crepe affiora la verità.
Attraverso gli occhi del bambino il nostro sguardo si spalanca: vede il dolore e, al tempo stesso, si difende dalla violenza del mondo, dalla morte. Il ragazzino diventa così la nostra coscienza, spingendoci a chiederci quando, nella nostra infanzia, abbiamo percepito per la prima volta la finitezza del mondo, delle cose, delle nostre vite. Qual è stato lo spartiacque, il punto di non ritorno, l’istante in cui ci siamo separati da una parte di noi perduta per sempre, alla quale sarà dolce tornare con il ricordo, per rivivere, anche solo per un istante, l’illusione della felicità. Perché spesso non è la verità che cerchiamo, ma l’illusione che da essa ci protegge. Altrimenti, come potremmo contenere dentro di noi l’orrore del mondo?
Ce lo mostra il bambino senza nome, senza nome perché quel nome diventi il nostro. Se i sogni dell’infanzia prima o poi raggrinziscono, se crescere significa divincolarsi dal ruolo che ci è stato assegnato in famiglia e scoprire la solitudine dell’esistere, allora l’unica via d’uscita è riempire l’attesa, tenere a bada l’oscurità e, come in un rituale, intonare un canto. Il senso ultimo della letteratura è proprio questo, come ci insegna Emily Dickinson nei versi evocativi di I sing to use the Waiting.
Il bambino, di fronte al male di una realtà in frantumi, è l’unico a vedere ancora il bene scaturire dalle sue fenditure. Laddove tutto sembra aver perso significato, per lui il senso del mondo non è ancora svanito. Ed è proprio qui che avviene lo svelamento apocalittico: la morte non esiste. Come scriveva Epicuro nella Lettera a Meneceo: “Quando ci siamo noi, la morte non c’è, e quando c’è la morte, noi non ci siamo più.” E allora, anziché essere preda della paura della morte, lasciamoci travolgere dall’ardore della vita.
Il bambino, fuggendo, conosce la realtà del mondo, quello che si dischiude al di là delle pareti rassicuranti e illusorie della sua camera, della sua casa, al di là di mamma, al di là di papà. Al di là delle storie dei pirati e degli indiani, che diventano simulacri dell’innocenza perduta. I luoghi dell’infanzia, con la loro spensieratezza, vengono distrutti dalla potenza devastatrice e purificatrice dell’acqua, e restano solo i fantasmi dei ricordi a depositarsi nell’oscurità degli abissi.
L’acqua è l’altra grande protagonista: dà la vita e la distrugge, rigenera e battezza. Portatrice di vita e di morte, come le donne di questa storia. Lacrime, sudore – siamo fatti d’acqua – “acqua soltanto, acqua d’ogni parte”, come ci ricorda la Ballata del Vecchio Marinaio di Coleridge, citata in epigrafe, quasi fosse un monito per chi si accinge a sfogliare queste pagine. Suggestioni da Melville, Morante e Pagliarani ci guidano lungo il dispiegarsi di una storia che, nella speranza, rivela l’altra faccia della distopia: essere travolti dalla violenza delle onde e scoprire, in quell’istante, di saperci nuotare attraverso.
Nel mondo esteriore e interiore immaginato da Giuseppe Zucco, tutto viene messo sottosopra. Il bambino, collante tra queste due dimensioni, è l’unico a restare aggrappato ai valori che nel mondo degli adulti si sono già dissolti. E insegna loro a continuare a giocare, mentre tutto intorno crolla e sta per essere spazzato via. Il mondo è al suo ultimo giro di giostra, il mare si è capovolto, casca la terra. E tutti giù per terra.
Mariangela Cofone
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Il signore delle acque di Giuseppe Zucco, Nutrimenti Edizioni.