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In ogni segno sonnecchia un mostro: lo stereotipo

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In ogni segno sonnecchia un mostro: lo stereotipo

Barthes scrive questa frase e poi la dice il 7 gennaio 1977. Quella sentenza è nel testo della sua lezione inaugurale al Collège de France, che Einaudi ha pubblicato nel 1981 in Nuovo Politecnico, uno dei rari libri che ho letto due, forse tre volte di seguito.

In quel discorso Barthes riflette su/tra linguaggio, sapere e potere, e intravede nello stereotipo il pericolo insito in ogni atto linguistico: il rischio che il segno, invece di aprire al senso, si chiuda in una formula, in un cliché, in un “già detto” che opacizza il pensiero. Negli stessi giorni la fortuna ha deciso che leggessi nei Quartetti di T.S. Eliot: We had the experience, but missed the meaning, /And approach to the meaning restores the experience / In a different form, beyond any meaning (Abbiamo vissuto l’esperienza, ma ne abbiamo perso il significato, e riavvicinarci al significato ci consegna l’esperienza in una forma diversa, al di là di ogni significato…). Ora mi viene da dire: per fortuna!

I significati prodotti dal segno non sono livelli “in più” all’infinito, ma strutture di semplificazione che ci consentono di ridurre la complessità, orientare l’esperienza, cioè rendere abitabile ciò che altrimenti sarebbe un insopportabile caos gassoso.

Niente di nuovo, una volta (il secolo scorso) Francisco Varela a tal proposito disse che questo senso (sensorium) è una funzione biologica, non una sovrastruttura culturale. Ma non è di questo che voglio dire, ma dello stereotipo; dunque, del mostro addormentato nel segno, ovvero la cristallizzazione del linguaggio che cancella la differenza e addomestica il pensiero.

La settimana scorsa dicevo a un autore che da Varela e Maturana con la teoria dell’autopoiesi, a Bruner (ricordo le discussioni con Alfredo Salsano della Bollati Boringhieri su “Acts of meaning”), fino a Bateson (tradotto da Pino Longo, l’intus legere non consiste nel moltiplicare le informazioni, ma nel trovare un ordine di sottrazione che renda il mondo abitabile. Il significato è la navicella, si potrebbe dire, con cui la vita modella la complessità per poterla attraversare. Questo è un altro discorso, lo so, però è un corso utile all’altro perché vorrei riflettere “tra” i due supposti ragionamenti.

Spesso si assiste a una caduta in cui il linguaggio smette di nominare e comincia a stereotipare. Come quando diciamo “le donne”, “i giovani”, “gli immigrati”, una volta si diceva “gli operai” (ma da quando votano per la Lega e Fratelli d’Italia gli intellettuali li riducono meno volentieri a un banale “noi”). Queste sono parole che nelle intenzioni sembrano de-scrivere, ma che invero elaborano un’immagine screditata, crediamo di nominare la realtà invece la annulliamo. L’astrazione del plurale livella e cancella la cosiddetta realtà offrendoci il conforto di un ordine apparente. Mi capita spesso di ascoltare persone colte e di buona volontà che ragionano per mezzo di queste pseudo-categorie. Perché lo fanno? Perché il collettivo dà un senso di giustizia e di appartenenza: sembra offrire un orizzonte in cui riconoscersi, ma proprio questa pretesa ingenua è l’inganno. Il gruppo, la categoria, il genere: ognuno di essi protegge e al tempo stesso impaglia come vuole l’imbalsamatore, crede di illuminare ma abbaglia, oscurando possibili altre visioni.

Dire “le donne” o “i giovani” significa già disporre un recinto simbolico. Dentro quel recinto convivono le differenze, che non ammettono un insieme. Il genere non unifica: attraversa, divide, moltiplica. È un prisma, non un piano. La differenza è tanta e tale che nessun discorso può contenerla senza deformarla.

Il linguaggio collettivo è una forma sottile di potere perverso. Dietro il noi si nasconde spesso l’esigenza di ordinare la molteplicità in un insieme coerente. È un gesto politico, ma anche metafisico: l’abolizione della singolarità in nome dell’unità. Lo si vede bene nei discorsi emancipatori, dove l’intenzione di liberare diventa facilmente una nuova norma di appartenenza. Simone Weil lo aveva intuito con chiarezza. Scrive che ciò che è sacro, in ogni essere umano, non è la persona in quanto tale, ma l’esigenza che non sia violata. Questa esigenza è singolare, concreta, non universale. Diffidare delle astrazioni, questo è il suo insegnamento. Lo Stato, la classe, la patria, la Chiesa, il genere sono “finzioni necessarie” che diventano pericolose quando smettono di essere strumenti e si trasformano in idolatria. L’unico modo di onorare l’umanità, scrive, è guardare con attenzione assoluta ogni singola esistenza nella sua nudità. L’attenzione è la forma più alta della giustizia, perché non generalizza: ascolta. Zambrano parla dal luogo del femminile, che non è identità, ma modo di conoscere: un sapere che custodisce invece di possedere. La sua filosofia mostra che il pensiero non può fiorire dentro una categoria; fiorisce solo nella differenza viva, nell’ascolto di quella interiorità che nessuna definizione può racchiudere, la sua scrittura è la negazione del discorso collettivo: non rappresenta, rivela; non spiega, guida.

Il suo noi è sempre un tu in divenire dinamico. Arendt porta la questione sul piano politico: la comunità non nasce dall’identità, ma dalla relazione dello spazio che separa e collega le singolarità, è addirittura banale doverlo affermare.

La folla è l’opposto della polis; è il preludio alla rinuncia, cioè l’entrata nello stereotipo. È tempo di imparare a parlare una lingua nuova, inventando una parola che non confonda la pluralità con la categoria. Una lingua che sappia dire ciascuna, ciascuno, restituendo alla parola la sua attenzione d’amore, labour of love.

Che fare per l’atto della decreazione? si chiede Weil.

È necessario sradicarsi. Esiliarsi da ogni patria terrestre.

Ciò significa produrre qualcosa d’irreale.

Sradicandosi si cerca qualcosa di più reale.

Luca Sossella 

[Le opere sono di Angel Albarrán e Anna Cabrera]

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