Due giganti della letteratura (Hemingway e Fitzgerald), chiusi in uno spazio intimo, si confrontano sulle loro insicurezze più profonde — la virilità, la scrittura, il corpo, l’identità — e in questa conversazione immaginaria si riflette anche il fantasma del figlio trans di Hemingway.
E intorno, le statue dai peni piccoli, come una galleria di miti che guardano e tacciono.
L’ambiguità sessuale di Hemingway, nascosta nei romanzi, viene rispecchiata, accarezzata, e forse compresa.
“Minima virilitas. Un museo, due scrittori, un’eredità.”
“Piccoli Dei”
Dialogo notturno tra Hemingway, Fitzgerald e un figlio invisibile.
AMBIENTAZIONE
Un museo vuoto, dopo l’orario di chiusura.
Le statue greche, perfette e minuscole, guardano in silenzio.
Fitzgerald e Hemingway si sono intrufolati — ubriachi, un po’ depressi, un po’ geniali — per risolvere una questione di proporzioni.
Dietro le quinte, in un’epoca futura, il figlio di Hemingway (Greg) commenta con ironia e tenerezza, come un narratore fantasma che ha finalmente capito tutto.
TONO
Ironia tagliente ma compassionevole
Dialoghi rapidi, brillanti, a tratti filosofici.
Hemingway è un orso sentimentale, Fitzgerald un esteta in crisi.
Greg, da fuori scena, smonta entrambi con la lucidità di chi ha sofferto ma sa ridere dei propri tormenti esistenziali.

ATTO I – “La misura degli dèi”
(Museo, notte. Due ombre tra i marmi.)
FITZGERALD:
Non so se ridere o piangere, Ernest. Sono venuto fin qui per essere umiliato da Apollo.
HEMINGWAY:
Apollo non è mai stato uomo, Scott.
È una statua. E le statue, per contratto divino, non si vergognano mai.
FITZGERALD:
Perché nessuno gliel’ha mai detto, Ernest! Guarda qui! Tutti piccoli, tutti sereni.
Forse Zelda aveva ragione.
HEMINGWAY:
Zelda aveva torto su tutto.
Tranne quando diceva che “scrivevi come un angelo”.
Il resto — lascia stare.
(Guarda una statua)
Guarda lui. Michelangelo non lo ha fatto per vantarsi. Lo ha fatto per ricordarci che la forza non è dove pensiamo.
FITZGERALD:
Tu stai cercando di dirmi che la grandezza è questione di… proporzioni spirituali
HEMINGWAY:
Sto dicendo che il bronzo si ritira col freddo, Scott. È scienza, non filosofia.
(Si guardano. Scoppiano a ridere.)
ATTO II – “Le statue ascoltano”
(Una voce fuori scena, moderna, calda, ironica: è Greg, il figlio di Hemingway.)
GREG (voce fuori campo):
Loro non lo sapevano, ma in quel museo stavano fondando una nuova religione:
il culto della virilità incerta.
Da allora, milioni di uomini nel mondo si sarebbero guardati allo specchio chiedendosi:
“Sarò abbastanza classico?”
Io, per esempio, alla fine ho risolto il problema cambiando campo di gioco.
Papà direbbe che ho “scelto un altro fronte”.
Io direi che ho semplicemente trovato il mio modo di essere intero.
FITZGERALD:
Ernest, tu non ti senti mai… in difetto?
HEMINGWAY:
Io mi sento in difetto ogni volta che non scrivo.
Ma mai quando amo.
Lì, la misura è un’altra.
FITZGERALD:
(guardando le statue)
E se loro avessero scelto di essere piccoli per poter stare tutti nello stesso museo?
HEMINGWAY:
Scott, tu riesci a rendere poetica pure la castrazione.
FITZGERALD:
È la mia specialità.
(Ridono. Hemingway posa una mano sulla spalla dell’amico.)
HEMINGWAY:
Ti confesso una cosa. Quando scrivo, a volte, mi piacerebbe essere… Ernestina
Indossare un abito, togliere le armi, vedere che succede.
Ma poi mi torna il riflesso e mi dico: “Greg mi guarderebbe male.” 
E allora smetto.
GREG (voce fuori campo):
Non ti avrei guardato male, papà.
Ti avrei solo detto: “Stai benissimo così.”
Ma lo so, per te l’ironia era un’armatura.
E anche stanotte, in mezzo ai marmi,
la indossi come una corazza che fa ridere e piangere insieme.
FITZGERALD:
Dunque, Ernest, siamo d’accordo: la statua perfetta non esiste.
HEMINGWAY:
Esiste, Scott. Ma ha il cuore spezzato e ride lo stesso.
(Luci basse. Hemingway osserva una statua. Fitzgerald si siede e si accende una sigaretta.)
(Una musica di jazz anni ’20 si sovrappone alla voce di Greg
GREG :
Li immagino uscire dal museo all’alba.
Scott ride, Ernest finge di no.
Nessuno dei due sa che la vera statua, stanotte,
era l’amore — quello che non si misura,
non si erige, non si ritira.
Solo resta, nudo, a guardarti in faccia.
E ride di noi.
Piccoli dei.
(Buio.)
ATTO III – “ Il Dopo il museo / Cocktail & confessioni”
Scena: Hemingway e Fitzgerald, usciti dal museo. È notte avanzata. L’aria ha qualcosa del mare salato (ricordando la Costa Azzurra). Ora sono seduti in un bar elegante ma intimo, luci basse, musica jazz soft. Hanno ordinato 3 cocktail: uno per Fitzgerald, un “Old Fashioned”; uno per Hemingway, qualcosa che richiami un drink dolce ma pungente; il terzo è per un bicchiere condiviso, come un gesto simbolico
FITZGERALD
Sai, Ernest, pagherei oro per sapere come ti vedi, lontano da tutte queste statue. Da quello che scrivi, dalle storie che racconti… come sei davvero.
HEMINGWAY (noiosamente corregge il tiro, sorseggia)
Non sono le statue che ti dicono cosa è reale, Scott. Sono le ombre. Le ombre che scegliamo di mostrare.
FITZGERALD
Ma – ti ho sentito dire qualcosa al museo. Qualcosa che nessuno ti ha mai chiesto apertamente. Travestimento? Sono voci?
HEMINGWAY (ride, un po’ nervoso)
Voci, eh? No, non voci — impulsi. Quando ero giovane, sotto la roulotte, con una parrucca rossa… mi mettevo un rossetto. Depilavo le gambe. Sentivo che quel “ruolo” mi aiutava a respirare.
Pausa. Fitzgerald deglutisce, non sa se ridere o cosa fare.
FITZGERALD
Davvero?
HEMINGWAY
Sì, davvero. Ma non era un gioco solo per essere altro. Era per sentire — che non ero solo quell’Ernest che tutti sapevano: cacciatore, maschio, scrittore. Era una cosa… diversa. Spaventosa. Necessaria.
FITZGERALD
E Catherine in Garden of Eden… mi pare di vederti lì, in te, in lei. Quei giochi di identità e aspetto, quella fluidità. Credi che la storia sia la tua storia?
HEMINGWAY
Catherine vuole che David diventi come lei, che siano gemelli, androgini, liberi dei ruoli.
Io no… io non l’ho mai scritto così chiaramente, ma c’è del vero. C’è questo desiderio terreno. E Catherine arde, fino a distruggere. E David — io — finisco sempre per sentire che qualcosa si perde.
Fitzgerald lo guarda: “Perché non me lo hai mai fatto vedere?” — Hemingway scuote la testa: “Non potevo.”
Si alzano. Hemingway, nella penombra, tenta un mini gesto: accarezza la parrucca che ha con sé o che nasconde nella giacca.
Però quella notte, seduto davanti allo specchio con una parrucca, capì che non serviva mostrarsi per essere vero. 
Greg, voce fuori scena, chiude con una riflessione: “E il Garden of Eden è il luogo che non esiste davvero, ma che cerchiamo di costruire ogni volta che decidiamo di tirare giù la maschera — o indossarne una nuova”
-Hemingway potrebbe riferire un episodio preciso: una sera a Parigi, si mise un abito di seta che aveva visto in una vetrina femminile; si guardò allo specchio. Rideva e piangeva allo stesso tempo.(n.d.r).
Finale del terzo atto
Hemingway, un po’ ubriaco, confessa che il travestimento fu anche un atto di scrittura: scriveva se stesso come se fosse un’altra voce.
Fitzgerald risponde: “Forse tutte le maschere, i rossetti, le parrucche — sono solo versioni sbagliate di noi stessi che cercano la persona che vorremmo essere.”
Si alzano. Hemingway, nella penombra, tenta un mini gesto: accarezza la parrucca che ha con sé o che nasconde nella giacca.
Greg, voce fuori scena, chiude con una riflessione: “E il Garden of Eden è il luogo che non esiste davvero, ma che cerchiamo di costruire ogni volta che decidiamo di tirare giù la maschera — o indossarne una.
ATTO III — “Cocktail, maschere e verità”
Scena:
Hanno lasciato il museo
Una terrazza notturna, affacciata su luci lontane (forse mare, forse città).
Tavolo tondo con tre sedie.
Al centro, tre cocktail — uno per Fitzgerald, uno per Hemingway, uno “condiviso”, leggero, quasi scherzoso.
Vicino, una borsa/scatola di tessuti, guanti, un fazzoletto di seta con tracce rosse (un indizio).
Luci calde, ombra morbida.
È un’ora impura: né giorno né notte, ma un limbo in cui le statue non li stanno guardando, perché non sono più lì.
Ora il palco è il presente, in cui le bugie diventano confessioni, e le confessioni diventano memoria.
FITZGERALD
(Beve un sorso, guarda Hemingway)
Non ti ho mai chiesto — e forse non ho osato — come ti vedevi, Ernest, dietro l’armatura.
Io guardo le statue, i marmi: pazienti, muti. Ma tu… tu come ti guardavi?
HEMINGWAY
(aria tra la sfida e la stanchezza)
Sai, Scott, le statue non si guardano mai. Non tremano. 
Ma io tremavo, oh sì.
Quando facevo quelle cose —
(deve schiarirsi la voce)
FITZGERALD
(la voce bassa, incredulo)
Cosa intendi “quelle cose”?
HEMINGWAY
Mi mettevo una parrucca.
Depilavo le gambe.
Usavo guanti.
Sceglievo rossetti rossi.
Non per spettacolo.
Per respirare.
FITZGERALD
(Trae un respiro)
Non so se ridere o piangere.
Eri un’ombra in cammino.
HEMINGWAY
(È ironico nel correggere il tiro)
Non ero ombra.
Ero — un atto.
Un esperimento.
(ride con amarezza)
Pensavo: se posso diventare “Ernestina” per un’ora, forse vengo meno l’Ernest che tutti vogliono.
Ma poi rivedevo te.
O il cielo sopra la Camargue.
E mi dicevo: “No. Torna a essere Ernest.”
FITZGERALD
Mi stai dicendo che il travestimento era anche letteratura?
Che quel gioco era una tua storia privata?
HEMINGWAY
Sì.
Catherine in The Garden of Eden chiede a David di tingersi i capelli come lei, di diventare gemelli androgini.
Quelle cose che lei spingeva — i ruoli confusi, l’identità flessibile — non erano così lontane da quello che ho fatto io.
(Musica di sottofondo, jazz lieve)
Ho pensato che la maschera potesse sovrascrivere la paura.
FITZGERALD
E Marita? Catherine? Il menage? Il segno di tradimento?
HEMINGWAY
Sono fantasmi che lei ha chiamato.
Lei voleva cambiare tutto, distruggere ruoli.
Ma distruggere è facile.
Ricostruire è un morso piano dopo piano.
FITZGERALD(Paurosa sincerità)
Tu… lo avresti voluto mostrarmi?
Mostrare “Ernestina”? Possederla?
HEMINGWAY
Forse.
Ma avevo paura di essere sabotato da me stesso.
Avevo paura che Gloria non volesse più tornare indietro.
(Un silenzio. Fitzgerald fissa la borsa, poi Hemingway. Fitzgerald si alza, va alla borsa, la apre lentamente.)
FITZGERALD
Questi tessuti…
Guanti…
È davvero tutto qui?
Sei… eri tutto questo?
HEMINGWAY
(Sospira)
Sì.
(una tenue autoironia)
Ero un uomo con una donna dentro.
E una statua fuori che non voleva tacere.
(Fitzgerald afferra un guanto, lo tiene tra le dita.)
FITZGERALD
Io uso le parole come abiti.
Ma non ho mai avuto il coraggio di cambiare taglio — né corpo.
HEMINGWAY
Ecco perché eri — e sei — il miglior scrittore che conosco.
Perché tu osavi cambiare il mondo senza spogliarlo.
(Bevono di nuovo al tavolo, il terzo cocktail rimane pieno, come promessa.)
HEMINGWAY
Lasciamo che Garden of Eden sia il nostro specchio.
Catherine spinge David — me — a sperimentare.
Io ho sperimentato.
Lei è bruciata.
E il romanzo è incompiuto.
FITZGERALD
Forse l’incompiuto è la poesia più vera.
GREG (voce fuori scena, calda, ironica)
E io — figlio invisibile — sono il frammento che rimane.
Conosco le maschere, le voci, le parrucche.
Conosco il buio dove nascono.
Ma so anche che l’Eden non è un luogo che perdi —
è la lingua che inventi per dire chi sei,
anche quando ti travesti.
(Luci che si abbassano. Hemingway e Fitzgerald si alzano, Hemingway accenna a raccogliere la parrucca o un guanto, poi lascia cadere la mano. Una nota jazz chiude.)
FINE ATTO III
ATTO IV — “La voce del figlio”
Scena:
Sempre sulla stessa terrazza. Sono passate un’ora, forse due. Le luci sono più basse, il vento frizza un po’ freddo. Il tavolo ha i bicchieri vuoti o semivuoti.
Hemingway ha davanti un “Vieux Carré” (strong, elegante, con Rye, Cognac, Vermouth, bitter), Fitzgerald sorseggia un “Corpse Reviver #2” (gin, Cointreau, Lillet, assenzio, limone) — scelto perché ironico: “io rivivo da morto”, come metafora del loro dialogo sul sé e la maschera.
Il terzo, mezzo sorso, è un “Negroni Sbagliato alla Hemingway” (una versione più forte — Campari, Vermouth rosso, un tocco di Champagne rosato) — per brindare al ponte, all’incontro, alla verità.
Vicino al tavolo: un registro grande, taccuino, penna, qualche foglio appallottolato.
GREG (entra in scena, una luce tenue lo illumina mentre si avvicina al tavolo)
Scusate il ritardo. Ho aspettato che il vento portasse via almeno un po’ dell’odore del whisky e delle sigarette.
HEMINGWAY (alzandosi in segno di cortesia, incerto, come chi non sa se meritarselo)
Greg. Vieni. (indicando una sedia) Bevi qualcosa?
FITZGERALD (sorridendo)
Il “Corpse Reviver” sta quasi terminando. Avresti uno stomaco forte?
GREG
Ho imparato con papà. Un sorso amaro rende il cuore più forte.
(Greg prende il Negroni Sbagliato. Sorso. Pause.)
GREG
Ho ascoltato la vostra nottata. Le confessioni. Le statue. Il rossetto e la parrucca.
HEMINGWAY
Hai sentito? Tutto?
GREG
Sì. Ho visto anche il guanto.
Silenzio.
GREG
Quando ho letto The Garden of Eden, ho visto che non era solo Catherine o David. Era te. È da lì che ho capito che le identità sono corpi liquidi di canto. Che indossare un abito, cambiare capelli, amare diversamente… non è perdersi. È trovare spazi dove vivere.
FITZGERALD
Tu… sei coraggioso.
GREG
A volte serve un mortaio — una statua da abbattere — per costruire la tua forma.
(guardando Hemingway) Papà, volevo dirti che…
(Greg prende il Vieux Carré — Hemingway alza gli occhi.)
GREG
Non ti biasimo per i travestimenti segreti.
Ti ringrazio per averli vissuti. Perché ogni volta che hai tessuto una maschera, hai creato qualcosa di vero.
HEMINGWAY
Non lo vedo sempre.
GREG
Stasera sì.
Vedo un uomo che ha amato troppo la forma della maschera e troppo poco la libertà del viso nudo.
FITZGERALD
Greg… era tuo diritto chiedere più luce.
GREG
Ho desiderato che potessi mostrarmi Gloria, papà. Ma ho capito che non è il mostrare che importa — è il riconoscere.
Io ti riconosco.
(Greg posa il bicchiere. Si alza. Guarda Hemingway negli occhi.)
GREG
Il mio Eden non è nel paradiso che sognavi. È nella verità che hai finalmente detto.
HEMINGWAY (la voce rotta, quasi sussurrata)
Grazie, figlio.
FITZGERALD (commosso, alza il suo bicchiere verso Greg)
A noi, alle maschere, e al volto che viene dopo.
(Tutti e tre brindano, sotto la luce fioca. La scena si chiude con una nota jazz lunga che sfuma.)
Francesca Mezzadri
NOTE DELL’AUTORE
Questo testo è un atto d’amore e irreverenza.
Un’opera di finzione, ma fondata su materiali autentici: frammenti di lettere, confessioni postume, romanzi mai conclusi, silenzi tramandati.
L’incontro tra Ernest Hemingway e F. Scott Fitzgerald è realmente avvenuto — più volte, più città, più tensioni. Il loro rapporto oscillava tra stima feroce e sarcasmo tossico.
Il celebre aneddoto sul “pene piccolo” di Fitzgerald proviene da Festa mobile (A Moveable Feast), l’ultimo libro di Hemingway, pubblicato postumo nel 1964, e contiene probabilmente più verità emotiva che fattuale.
Il personaggio di Greg, figlio omosesuale di Hemingway, è invece inserito con piena intenzione narrativa. Greg (nato Gregory Hemingway) fu l’ultimo dei tre figli di Pauline Pfeiffer, seconda moglie di Ernest.
Greg visse una vita segnata da sofferenza psichica, internamenti, travestimenti, incarcerazioni. A un certo punto assunse il nome di Gloria.
La sua storia è stata raccontata dal figlio John Hemingway nel memoir Strange Tribe (2007), un’opera che rivela quanto Ernest e Greg, pur tanto diversi, condividessero una forma simile di spaesamento identitario.
In particolare, il mio personaggio di Greg è anche un ponte con la letteratura contemporanea:
Il tono e l’architettura corale si ispirano a Quando cadono le stelle di Gian Paolo Serino (Baldini+Castoldi, 2016), un romanzo che raccoglie — in forma ibrida tra fiction e verità — le storie sommerse di grandi personalità pubbliche.
Come Serino, ho cercato di illuminare il margine, e i margini dentro i miti.
Altro riferimento cruciale è Il giardino dell’Eden, romanzo incompiuto di Hemingway, pubblicato postumo nel 1986.
Ambientato durante la luna di miele tra un uomo e una donna che progressivamente scivolano in giochi di travestimento e inversione di genere, il libro suggerisce — in forma letteraria e pudica — lati di Ernest che la sua immagine pubblica ha sempre negato.
Il fatto che ci abbia lavorato per oltre quindici anni senza mai pubblicarlo in vita, dice tutto.
La scena delle statue, i cocktail, la terrazza notturna, sono mie invenzioni.
Ma mi auguro che dentro ci sentiate l’eco vera di quegli uomini, le loro fragilità ben nascoste, e anche la tenerezza che hanno forse avuto paura di mostrarsi l’un l’altro.
*A chi si traveste per non scomparire.
A chi beve per non tremare.
A chi scrive per trasformarsi
L’autore